domenica 29 agosto 2010

I POETI LAVORANO DI NOTTE di Alda Merini


I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

mercoledì 25 agosto 2010

Thomas Stearns Eliot (1915) - "Rapsodia su una notte di vento"


Mezzanotte.

Per tutti i rettilinei delle strade
Serrate in una sintesi lunare,
Incanti lunari che bisbigliano
Dissolvono i piani della memoria
E tutte le sue chiare relazioni,
Le sue divisioni e precisioni
Ogni lampione che oltrepasso
Batte come un tamburo fatale,
E attraverso gli spazi del buio
La mezzanotte scuote la memoria come
Un pazzo scuote un geranio appassito.

L'una e mezzo

Il lampione sfrigolava,
Il lampione borbottava,
Il lampione diceva "Guarda quella donna
che esita verso di te nella luce della porta
Che s'apre su di lei come un sogghigno.
Vedi l'orlo della sua veste com'è strappato e sporco di sabbia,
E vedi l'angolo del suo occhio
Come si torce come uno spillo ricurvo
"

La memoria rigetta e dissecca
Un ammasso di cose distorte;
Un ramo curvo sotto la pioggia
Tutto consunto e polito
Come se il mondo portasse in superficie
Il segreto del tuo scheletro,
Rigido e bianco.
Una molla rotta nel cortile di una fabbrica,
Ruggine che s'afferra alla forma che la potenza ha lasciato
Dure e arricciata, e pronta a spezzarsi.


Le due e mezzo,

il lampione disse:
"Osserva il gatto che si stira nello scolo,
che cava la lingua
e divora un boccone di burro rancido".
Così la mano del bambino, automatica,
scivolò fuori e mise in tasca un giocattolo che correva lungo il molo.
Non potei veder nulla oltre l'occhio del bambino.
Ho visto occhi nella strada
che tentavano di spiare attraverso le imposte illuminate,
e un pomeriggio un granchio in uno stagno,
un vecchio granchio pieno di parassiti sulla schiena,
che s'aggrappava alla punta dello stecco che gli tendevo.


Le tre e mezzo,

il lampione sfrigolava,
il lampione borbottava nel buio.
Il lampione ronzava:
"Guarda la luna,la Lune ne garde aucune rancune,
strizza il suo occhio languido,
sorride agli angoli,
liscia la chioma dell'erba.
La luna ha perduto la memoria.
Un vaiolo slavato le screpola la faccia,
attorce con la mano una rosa di carta,
che profuma di polvere e d'eau de Cologne,

è sola,con tutti gli antichi profumi notturni
che le incrociano e incrociano dentro il cervello.

"Viene reminescenza
di aridi gerani senza sole
e polvere nelle crepe,
profumi di castagne nelle strade,
e odori di donna nelle stanze chiuse,
e di sigarette nei corridoie di cocktail nei bar.
Il lampione disse,


"Le quattro,

Ecco il numero sulla porta.
Memoria!
Hai la chiave,
La piccola lampada getta un cerchio di luce sulla scala.
Sali.
Il letto è pronto; lo spazzolino è appeso al muro,
Posa le scarpe davanti alla porta, dormi, preparati alla vita.
"L'ultimo rigirarsi del coltello.

domenica 22 agosto 2010

James Augustine Aloysius Joyce - da Dedalus a Ulisse (I)


Di Dedalus Joyce diceva: «E´ stato il libro della mia giovinezza». Lo "superò" con l´Ulisse, il romanzo della maturità. Ma in realtà, in Ulisse Dedalus torna come co-protagonista, insieme a Bloom, di quell´epopea quotidiana, che vede in un giorno qualunque a Dublino l´incontro tra l´uomo medio Leopold Bloom, nel quale si reincarna l´Ulisse omerico, e l´intellettuale, controfigura dell´artista Stephen Dedalus, in cui si manifesta Telemaco.
Ma si badi bene: Stephen Dedalus è nato prima; il figlio Telemaco è nato prima del padre Ulisse. A ben pensarci, non è sempre così? il figlio non nasce sempre prima del padre?

Il figlio è una figura reale e simbolica che ossessiona Joyce - come tanta parte della letteratura europea del suo secolo. Basta pensare a Musil, a Freud, a Kafka. Insieme al relativo problema dell´iniziazione alla vita. Anche in questo senso Dedalus è, e non può non essere prima di Ulisse. Attraverso Dedalus Joyce descrive la posizione filiale come «un´età del tormento, quando non si vede niente con chiarezza». Del resto, così era stata la giovinezza di Stephen e di Joyce: «violenta e dolorosa». Insoddisfazione, inquietudine, smarrimento sono i toni profondi del romanzo. Come nella prima versione, Stefano è a tutti gli effetti l´eroe di cui si raccontano le gesta. Atti, a dire il vero, niente affatto eroici, che hanno però come sfondo emotivo una densa, intensa, carica eroica; com´è tipico dell´adolescenza e della giovinezza, l´esperienza più banale si carica di significati portentosi, come se a ogni istante si dovesse scegliere se vivere o morire.

Fa parte di questa intensità emotiva la simbolicità del nome e cognome dell´eroe. Il cognome nella seconda versione cambia leggermente, da Daedalus in Dedalus, come se Joyce volesse spegnere una certa eccessiva ricercatezza. Rimane tuttavia un nome (e cognome) fin troppo appariscente e vistoso per un irlandese, che spande intorno al personaggio un´aura preziosa, ricercata; una magia che, se nei primi capitoli è tenuta a bada, negli ultimi si libera creando un´area in più di espressività. Come se giocando con la propria stranezza il nome si presentasse col pieno potere della sua valenza profetica. In un certo senso, Stephen matura staccandosi dalla sua famiglia reale irlandese di Dublino e assumendo la parentela con il suo eponimo greco. Stephen matura, cioè, diventando archetipico, mitico, riconoscendo il proprio posto tra gli intraprendenti artefici dello spirito.

E´ un procedimento di acquisizione del proprio sé - movimento proprio del romanzo di formazione - che si sviluppa, però, attraverso un modo poetico, più che romanzesco. Con tonalità rituali, magiche, più che realistiche.

Il modo in cui Stephen si riconosce come protagonista della propria esistenza è alla Pound, alla Yeats: il concetto di maschera è centrale. L´eroe sceglie per sé una maschera, se la mette ed ecco che da essa deriva una forza che non possedeva prima.

Stephen può scegliere tra due maschere - quella apostolica, cattolica e romana del reverendo Stephen Dedalus, mentre l´altra è greca. Stephen sceglierà la maschera greca, e nei capitoli finali, in coincidenza con la fase conclusiva della pubertà, il processo mitopoietico si compirà con l´invocazione al padre Dedalo: «vecchio genitore, vecchio artefice». Avendo trovato il proprio padre simbolico, "benvenuta", a questo punto, è per il giovane Stephen "la vita!" Accettare il nome proprio significa per Stephen accettare la missione che comporta. Il Nome è sempre del Padre, e in quanto sigillo dell´unione col Padre suo simbolico lo celebra alla fine Stephen. Chiede al vecchio genitore e artefice Dedalus: «Fammi ora e sempre buona guardia». Chiede al padre suo simbolico di essere il suo angelo custode e dargli le ali. Con le quali fuggirà dal labirinto.

Ma l´allusione tutta librata sulla libertà del volo ha un´indimenticabile, anche se qui temporaneamente soppressa, eco sinistra. Tutti ricordiamo la vicenda di Dedalo. E se Ovidio è cortese con lui, e lo tratta con rispetto, vi sono altri, come nel caso di Bacone, che lo criticano in quanto architetto e scienziato. E in effetti, a ben pensarci, se Dedalo dette le ali a Icaro, i risultati non furono dei migliori. E se è vero che l´invenzione delle ali è magnifica e quella del labirinto straordinaria, che dire della pseudo-vacca che inventò perché Pasifae potesse copulare col suo toro? Tale ridicola macchina non viene menzionata nel Dedalus; ma Stephen se ne ricorderà nell´ Ulisse, parlando di un´altra invenzione antica, del cavallo di Troia. Un´altra storia che getta ombra sulla figura di Dedalo è quella del nipote che Dedalo fece fuori - dicono - per pura invidia e gelosia.

Il padre, anche quello simbolico, non vorrà sempre la distruzione del figlio? Sarà per questo che il mistero della paternità è tra i più dolorosi, e affligge la Kakania, come Praga, come Dublino?


(Fonte:NADIA FUSINI . Repubblica.it)

Edmond Haracourt - Partire è un po' morire


Partire è un po' morire
rispetto a ciò che si ama
poiché lasciamo un po' di noi stessi
in ogni luogo ad ogni istante.
E' un dolore sottile e definitivo
come l'ultimo verso di un poema...
Partire è un po' morire
rispetto a ciò che si ama.
Si parte come per gioco
prima del viaggio estremo
e in ogni addio seminiamo
un po' della nostra anima.

sabato 21 agosto 2010

José Saramago - Silenzi


Oggi non era giorno di parole,
con mire di poesie o di discorsi,
né c’era strada che fosse nostra.
A definirci bastava solo un atto,
e visto che a parole non mi salvo,
parla per me, silenzio, ch’io non posso.
Salmi 85(84),9-10.11-12.13-14.

Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: 

egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore.
La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra.
Misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno.
La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo.
Quando il Signore elargirà il suo bene, la nostra terra darà il suo frutto.
Davanti a lui camminerà la giustizia e sulla via dei suoi passi la salvezza.

Edith Södergran - Notturno


Ho intonato un canto.
Venuto non so da dove –
è scivolato come seta sulle mie corde.
Che sia dovuto agli sciolti capelli neri della notte?
O forse ai bianchi tratti sognanti della luna?
E la notte cantava, cantava
della solitudine che cullando a tutto dà pace,
cantava delle sognanti naiadi,
dei ruscelli senza brusio, del segreto della gora...
La notte aveva il fiato sospeso –
una rosa mi si è avvizzita tra le mani –
e tale la quiete come fosse svanito l'ultimo sospiro
del tutto.




Edith Irene Södergran (San Pietroburgo, 4 aprile 1892 - Raivola, 24 giugno 1923) è stata una poetessa finlandese di lingua svedese. Iniziatrice dell’espressionismo in Finlandia, ha influenzato la lirica in lingua svedese fra le due guerre mondiali.
Debuttò nel 1916 con la raccolta Poesie, in versi liberi, alla quale seguirono Lira di settembre del 1918, L’altare delle rose del 1919, L’ombra del futuro del 1920 e Il paese che non esiste del 1925.
Tramite l’uso di vari mezzi stilistici, cantava la bellezza e la ricchezza della vita, e alternava visioni di beatitudine ultraterrena a momenti di malinconica rassegnazione, in un personale mondo di immagini.

venerdì 20 agosto 2010

La bellezza salverà il mondo - Intervista a Roger Scruton, filosofo inglese


Se la bellezza salverà il mondo, la cultura potrebbe redimerlo. Ma oggi il sapere è minacciato dai «nuovi media» che minacciano il pensiero autentico. È quanto sostiene Roger Scruton, filosofo inglese e docente all’Institute for the Psychological Sciences di Washington e Oxford,
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Nel suo libro «La cultura conta» ( Vita e Pensiero), lei afferma che se manca la dimensione etica dell’uomo, anche la sua capacità decade. Vale anche per l’arte l’assioma morale di Dostoevskij: ‘Se Dio non esiste, tutto è possibile’?
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«Molte persone che possiedono un sentire morale non credono in Dio, e sospetto che pochi umanisti sarebbero d’accordo con Dostoevskij. Penso che la vita morale punti verso Dio, anche se essa può esser praticata da persone che non Lo trovano o non Lo cercano. In modo simile, l’esperienza estetica e il sentimento della bellezza puntano verso Dio mostrando che questo mondo è intrinsecamente pieno di significato, come se fosse illuminato da una fonte trascendentale. La bellezza sta a fianco del sacro come una finestra su tale sorgente. Un tempo l’arte era fondata sulla religione e al suo sommo grado essa è spesso stata creata a servizio della religione. Anche l’arte che non cita Dio può avere una forza religiosa, come il Tristano e Isotta di Wagner. Questo avviene perché la bellezza ci apre al pensiero che la nostra esistenza non viene solo consumata, bensì è redenta».
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Nello stesso libro lei afferma che la cultura è generata da una religione. Oggi, lei denuncia, la cultura occidentale si qualifica in senso negativo e non più propositivo: ad esempio come strutturalismo, post¬modernismo… Perché questa visione ‘negativa’ della cultura?
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«Dietro ogni cultura vi è una tradizione religiosa che la nutre. E se questa si indebolisce, la cultura rimane senza nutrimento spirituale e decade. Lo abbiamo visto nella spiritosa satira dell’arte che si trova alla Biennale di Venezia o alla Tate Gallery a Londra. Senza radici spirituali l’arte diventa un fantasma, piena di livore e derisione ma senza il dono della bellezza. Un artista può perseguire il bello solo se guarda alla realtà come un dono che va accolto con gratitudine e se compie la sua opera come espressione di gratitudine. L’arte deve essere seria, riconoscendo che gli esseri umani non sono semplicemente macchine di piacere ma creature con un destino spirituale. Non tutti gli artisti hanno rotto con tale eredità. Nella musica vedo molti compositori che lottano per mantenere viva questa eredità. Ma vi sono giovani musicisti che hanno perso ogni fiducia nel trascendente, e quindi vengono attratti dai metodi del ‘criticismo’, quel post-strutturalismo e post¬modernismo che lei citava, i quali rimuovono tutte le tracce di significato. Nella nostra cultura è all’opera un nichilismo attivo che proviene dalla delusa amarezza di quelle persone che non riescono a trovare la fede».
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In che modo il Dio cristiano a che fare con la bellezza? «L’arte è un omaggio alla forza creativa che guida l’universo, un tentativo di incorporare, dentro confini umani, l’esperienza di un mondo che è al contempo creato e offerto. Una volta l’arte aveva un posto indiscutibile nel culto religioso, non solo in quello pagano ma anche nelle chiese cristiane. L’islam ha allontanato l’arte figurativa dalla moschea, ma non ha espulso la bellezza. Ha cercato di abbellire il luogo di culto in un modo che potesse essere un tributo degno di quel Dio che lì veniva adorato. Quest’abitudine di offrire in un luogo di culto ciò che è più bello vien testimoniato in tutto il mondo, nel giudaismo, nell’induismo e nel buddismo, nella semplice moschea del deserto o nei gloriosi santuari dei santi cristiani. L’oggetto meraviglioso è al di fuori dell’ordinario corso degli eventi umani. Esso richiede riverenza, rispetto e anche coscienza di chi andiamo ad incontrare. Mi sembra, comunque, che la bellezza punti verso il Dio del cristianesimo piuttosto che gli dei dell’antichità o Allah. Questo, perchè il Dio cristiano è un Dio incarnato, che condivide la nostra situazione ed è presente nelle nostre vite. Egli può essere rappresentato nell’arte e la nostra tradizione di pittura e scultura ci ha condotto ad un’intima relazione con Lui. Egli si è dispiegato anche nella musica e nei lavori dei poeti. E non si può conoscere la grande tradizione dell’arte e della musica europea senza capire che qui vi è qualcosa di molto più grande che è stato raggiunto rispetto a qualsiasi altra civiltà. Certo, questo non è politicamente corretto da dire. Ma è vero».
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In Italia vi è sempre più attenzione all’’emergenza educativa’, una questione che ha a che fare con la trasmissione della cultura. Se dovesse scegliere una priorità su questo, cosa indicherebbe? «Tale emergenza non è solo italiana, esiste dovunque in Europa e, sebbene il declino della religione cristiana sia parte del problema, non riguarda solo il cristianesimo. La medesima emergenza colpisce i figli dei musulmani e i genitori ebrei. Tutti sono colpiti dall’influenza dei nuovi media che riescono a distruggere la conoscenza in maniera immediata. La tv, i videogiochi, i cellulari e gli i-pod bombardano i sensi dei giovani con immagini che distraggono, suoni violenti e che sostituiscono il pensiero. In molti casi è impossibile penetrare la barriera di nonsense con cui i giovani circondano se stessi. Assistiamo all’emergere di un nuovo tipo umano che possiede tutto ma ha perso l’uso del linguaggio e la capacità di offrirsi nell’amore e nell’amicizia. La Chiesa ha un ruolo nell’avvertire le persone sui danni cerebrali e spirituali che derivano da queste forme di comunicazione».
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Fonte : Lorenzo Fazzini – Avvenire, 8 dicembre 2009

giovedì 19 agosto 2010

Preghiera del cardinale John Henry Newman


Guidami, dolce luce, nelle tenebre che mi sommergono, guidami verso l'alto.
La notte è fonda e sono lontano da casa: guidami verso l'alto! Dirigi i miei passi, perchè non vedo nulla; fà che veda a ogni mio passo.
Un tempo non ti avrei pregato per farlo. Da solo volevo scegliere il cammino, credendo di poterlo determinare con la mia luce, malgrado il precipizio. Con fierezza elaboravo i miei obiettivi. Ma ora dimentichiamo tutto ciò.
Tu mi proteggi da tanto tempo e accetterai di guidarmi ancora: oltre le paludi, i fiumi e gli scogli che mi attendono al varco, fino alla fine della notte, fino all'aurora in cui gli angeli mi faranno segno. Ah! Io li amo da molto tempo, solo per un pò li avevo dimenticati.

mercoledì 18 agosto 2010

CESARE PAVESE - Notturno


La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena
e accompagna quel cielo. Sei come una nube
intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
la stranezza di un cielo che non è il tuo.

La collina di terra e di foglie chiude
con la massa nera il tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
tra le coste lontane. Sembri giocare
alla grande collina e al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo sfondo antico
e lo rendi più puro.

Ma vivi altrove.
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
Le parole che dici non hanno riscontro
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
impigliata una notte fra i rami antichi.

martedì 17 agosto 2010

Il sillabario di Platone B. Bellezza …. intervista a Remo Bodei


Bello, kalos, suggerisce Socrate nel Cratilo, deriva forse da kalein, chiamare, invocare a sé, attrarre oltre i confini di una dimensione che si tratta di superare: bello è ciò che chiama a valicare un limite entro il quale l’esistenza sembra priva di qualcosa d’essenziale, incompleta. Hannah Arendt, dal canto suo, scrive in Vita Activa che nella Grecia classica i poeti e i creatori di bellezza, come tutti i demiurgoi, agiscono nell’orizzonte di libertà che si apre oltre i confini dell’oikos, oltre le mura di casa entro cui si provvede solo al necessario, alle condizioni materiali del vivere. Ciò che i poeti creano, la bellezza dunque, non ha a che fare col necessario ma con quella peculiare libertà “greca” che si staglia oltre i bisogni, oltre il mero vivere: una libertà che non è fuga da ogni impegno, misura, limite o condizionamento, ma al contrario è la libertà che, oltre il recinto domestico del necessario, conduce al centro della polis, all’agora, allo spazio politico in cui la natura umana può trovare completa espressione. Una libertà che dunque non esclude il necessario ma lo abbraccia in sé, lo include come sua condizione interna, come sua concausa, allo stesso modo che la vita in sé e per sé, la vita biologica, non vale per se stessa ma solo come condizione necessaria (e non sufficiente) del viver bene.



Bellezza, nella Grecia classica, è parola inscindibile da quell’idea di armonia, di proporzione delle parti, di misura da cui scaturiscono anche la giustizia, il valore, la sapienza: kalokagathos è la celebre crasi che unisce il bello e il buono, il buono a-, “colui che è atto” non a qualche particolare azione ma aplos, buono “semplicemente”, in quanto tale, in generale: buono a- tutto è colui che in ogni cosa riafferma la sua misura. Si parla qui dunque, in primo luogo, di bellezza di un uomo, dell’uomo bello, e di bontà dell’uomo che è “atto” alla vita, che vive fino in fondo ciò che è. Ciò non esclude che si possa parlare anche di una bellezza sensibile delle forme, della scultura, dell’architettura, o della parola del poeta: la bellezza sensibile è anzi ricercata e acclamata come perfetta armonia, corrispondenza delle parti. Ma tale riconoscimento non ci rinvia ad una settoriale bellezza sensibile dell’arte separata della vita: è la crasi del kalokaagthos ad impedircelo, è la Grecia tutta a negare la separabilità del bello dalla vita nel suo insieme, dalle azioni del quotidiano, dalla polis.





Platone non si discosta da questa visione greca della bellezza, ma approfondisce la nozione complessa di quel bello come armonia che, se frainteso con occhi moderni, rischia d’essere liquidato come canone astratto, rigido parametro oggettivo, matematica esattezza che risplende nella calcolabile armonia delle parti. Non è freddo calcolo l’armonia geometrica a cui egli pensa. Bellezza è in primo luogo seduzione: è seduzione dei corpi, come quella che colpisce Socrate travolto dall’avvenenza del giovane Carmide, ed è seduzione della mente, come la “lusinga” di cui sono maestri i sofisti, che al loro pubblico forniscono facili ed allettanti persuasioni retoriche che tutti seducono allo stesso modo, omologandoli, proprio come un cuoco che offre dolciumi ad una platea di bambini. Questo tipo di seduzione, la seduzione di certa poesia, è per Socrate senz’altro da bandire: di falsa bellezza si tratta, come lascia intendere la sua celebre condanna delle arti imitative che valse per secoli a Platone l’epiteto di “nemico dell’arte”.
Vi è tuttavia anche un’altra poesia, magistrale esempio di creazione di bellezza, per la quale Socrate riserva ben altre parole. Decisivo è qui il ruolo dell’ispirazione, dell’entusiasmo, della possessione, della theia mania. “Colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, – dice nello Ione – pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimarrà incompleto, e la poesia di chi rimane in senno verrà oscurata da coloro che sono posseduti da mania”. L’ispirazione divina conferisce bellezza e forza alla poesia, così come all’arte del rapsodo e attore che, “dall’alto del suo palco”, recita i versi dei poeti. Discutendo con il rapsodo Ione intorno alla ragione per la quale egli si mostra in grado di recitare con grande maestria e forza di persuasione solamente i versi di Omero, afferma Socrate che “tu non sai parlare di Omero per arte e per scienza, perché, se lo sapessi fare per arte, sapresti parlare anche di tutti gli altri poeti”. Come il poeta può comporre solo se si trova in quello stato di furore che lo rende “interprete degli dei”, e non autore egli stesso dei propri poemi, così Ione, quando si trova a commentare un verso di Omero, o a recitarlo nei teatri, agisce in stato di mania, fuori di senno. Un’enigmatica affinità lega Ione ai versi di Omero, tale da consentirgli di commentarli e recitarli in modo efficace e persuasivo, mentre altrettanto non gli riesce con i versi di altri poeti: è infatti la sorte divina a governare le sue parole.










Ciò differenzia l’arte di Ione da tutte le scienze che hanno invece conoscenza specifica del proprio oggetto. L’arte e la poesia divinamente ispirate, dunque, per quanto belle non sembrano avere a che fare con la conoscenza degli esperti nelle varie scienze, che a tutti e in ogni situazione sanno parlare del proprio oggetto di studi. Dunque sembra difficile che una simile bellezza senza scienza possa aiutare a formare uomini sapienti e a costruire una vera polis. Ma forse le cose non stanno proprio così: in primo luogo dobbiamo ricordare che la conoscenza scientifica, oggettiva, quella che si rivolge indistintamente a tutti e non è influenzata da ispirazioni divine di alcun tipo, è definita da Socrate nel Gorgia come “irrazionale” perché non si occupa dell’unicità delle persone a cui si rivolge. In secondo luogo, nel Teagete Socrate sostiene che anche l’arte del dialogare, proprio come la poesia ispirata, è governata dall’imprevedibile intervento del demone che indica chi non può trarre giovamento dalle sue parole. Come Ione è legato da un vincolo inspiegabile ad Omero, così anche la divina sofia è caratterizzata da un’enigmatica affinità “senza perché” che unisce i dialoganti e rende efficaci, “vere” in quanto indirizzate al fine del dialogo, le parole di Socrate.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, possiamo ipotizzare che l’arte divinamente ispirata e la sua bellezza non siano così inutili e lontane da quella conoscenza di sé che è per Socrate l’unica cosa che conta davvero. Il suo esser posseduta dal divino la distanzia dalle scienze oggettive ma la rende anzi affine alla conoscenza di sé, cioè all’unica vera razionalità. Non per tutti è il parlare di Socrate, non di tutto parla Ione, ma solo dei versi di Omero: il suo non parlar di tutto, che lo differenzia dagli scienziati, è l’immagine, sul piano monologico in cui si sviluppa il parlare di Ione, della demonicità del dialogo. La bella recitazione dell’attore divinamente ispirato che colpisce il proprio pubblico, è un monologo che rinvia oltre se stesso, oltre la propria strutturale monologicità verso il piano divino del dialogo; in questo rinvio, che si esprime proprio nell’invasamento o ispirazione, sta la sua divinità, l’annuncio del dio di cui il poeta e l’attore si fanno “interpreti”.
Il bello, la percezione e la fruizione che di esso offre la parola del poeta posseduto dal dio, così come il gesto dell’attore in quanto “interpretazione”, icona mobile di un’invisibile origine divina che si rivela autentica autrice di quel gesto, sono manifestazioni di to theion: esse sono belle e divine in quanto sospingono alla conoscenza e al governo di sé, dunque anche al governo della polis. Il bello e l’ispirazione divina hanno dunque natura politica. La visione del bello squarcia le maglie che irretiscono lo sguardo incantato dalle imitazioni camuffate da verità: l’esperienza del bello non è solo un momento piacevole e fugace, una sospensione delle incombenze pratiche della vita, una pausa, una fuga, un tempo libero e parziale. Il bello è tale solo se la sua fruizione, il goderne dunque, contribuisce al riscatto dell’intera vita di chi in esso si imbatte, anche dei suoi gesti quotidiani indirizzati all’utile. Quell’utile che i più ritengono separato dal bello: altra menzogna da lasciarsi alle spalle, grazie all’azione della poesia divina che è appunto, ad un tempo, “dolce e utile”, edeia kai ophelime.

Fonte: http://www.pratichefilosofiche.com/

domenica 15 agosto 2010

Children are the future of the world



Nei paesi poveri i ricchi usano il lavoro minorile, quello dei bambini, per accrescere le loro ricchezze.
Spesso i prodotti vengono rivenduti nei paesi ricchi con altissimi profitti.

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Salviamo i bambini ...





A questo proposito Nancy scrive:

This is a very sad thing of this world, people being mean to other people, and I completely agree with you... Beauty WILL save this world... we are working hard for this!

sabato 14 agosto 2010


Buon Ferragosto, festa dell'Assunta !

venerdì 13 agosto 2010

Joan Baez - Sagt Mir Wo Die Blumen Sind


Sag mir, wo die Blumen sind.
Wo sind sie geblieben?
Sag mir, wo die Blumen sind.
Was ist geschehn?
Sag mir, wo die Blumen sind.
Mädchen pflückten sie geschwind.
Wann wird man je verstehn?
Wann wird man je verstehn?


Melodia e parole dolcissime...
le prime nel mio tedesco primitivo
lungo la Limat...

... dove sono finiti i fiori ...

( e le giovani donne della gioventù,
aggiungo io).
Sag mir, wo die Blumen sind
è una poesia che ognuno potrebbe fare sua se crede nell'amore

Trilussa - La Libbertà de pensiero


Un gatto bianco, ch’era presidente
der circolo der Libbero Pensiero
sentì che un gatto nero,
libero pensatore come lui,
je faceva la critica
riguardo a la politica
ch’era contraria a li pensieri sui.
“Giacche nun badi alli fattacci tui,
-Je disse er gatto bianco inviperito-,
rassegnerai le proprie dimissione
e uscirai da le file der partito:
che qui la poi pensà liberamente
come te pare a te, ma a condizione
che t’associ a l’idee der presidente
e a le proposte de la commissione!”
“E’ vero, ho torto, ho aggito malamente…”
Rispose er gatto nero.
E pe restà ner Libero Pensiero
Da quela vorta nun pensò più gnente

mercoledì 11 agosto 2010

Shakespeare : Sogno di una notte di mezza estate - 1595 - inizio dell'atto quinto - Scena unica


Entrano Teseo, Ippolita, Cortigiani e Valletti, fra i quali Filostrato.

IPPOLITA

Strane cose, Teseo, quelle di cui parlano questi innamorati.

TESEO

Più strane che vere. Mai sarò indotto a credere
a queste favole grottesche, a queste storielle di Fate.
Gli innamorati e i pazzi hanno i cervelli in tale ebollizione,
e tanto fervide son le loro fantasie, che concepiscono più
di quanto il freddo raziocinio mai comprenda.
Il lunatico, l'innamorato e il poeta,
sol di fantasie sono composti.
L'uno vede più demoni di quanti l'inferno ne contenga -
e questo è il pazzo. L'amante, frenetico altrettanto,
vede la beltà di Elena nel volto d'una zingara.
L'occhio del poeta, roteando in sublime delirio,
va dal cielo alla terra e dalla terra al cielo,
e mentre la fantasia produce
forme ignote, la sua penna
le incarna, ed all'etereo nulla
dà dimora e nome.
Tali artifici possiede la fervida immaginazione
che se una gioia percepisce,
sùbito concepisce qualcosa che l'arreca.
E se di notte immagina spavento,
presto un cespuglio si trasforma in orso!

IPPOLITA

Ma il racconto di tutto ciò che accadde questa notte,
e il fatto che le menti di ognun furon stravolte,
attesta qualcosa di più che fantastiche visioni,
e la cosa assume grande consistenza -
per quanto strana e prodigiosa.
Il Sogno di una notte di mezza estate racconta delle imminenti nozze tra Teseo, duca d'Atene, e Ippolita, regina delle Amazzoni, da lui sconfitta e suo bottino di guerra. Un gruppo di artigiani-attori prepara una recita per l'occasione, mentre Titania e Oberon, rispettivamente regina e re delle fate, presumibilmente protettori dei talami nuziali, sono in lite fra loro e assistono nel bosco, tra un dispetto e l'altro, all'incontro tra amanti incompresi, amanti in fuga, amanti non corrisposti ...

Un fitto bosco di equivoci e malintesi, un re e una regina litigiosi, folletti dispettosi e creature magiche sono gli ingredienti ideali per una commedia divertente ma anche ricca di poesia e delicatezza, apparentemente elegante e cortese, impregnata di spunti noir e talvolta inquietanti. Il notturno, le visioni, il sovrapporsi di atmosfere che precedono il sonno e la veglia, l'inquietudine, sono caratteristiche che attraversano l'opera e lo spettacolo e che permettono di fare un vero salto nel fantastico da un lato, un'incursione nelle ambigue immagini della mente umana dall'altro.

Il Sogno di una notte di mezza estate è un vero e proprio teorema sull'amore ma anche sul nonsense della vita degli uomini che si rincorrono e che si affannano per amarsi, che si innamorano e si desiderano senza spiegazioni, che si incontrano per una serie di casualità di cui non sono padroni. Un gioco, a volte divertente a volte crudele, di specchi e di scatole cinesi che rivelano quanto la vita degli uomini sia soggetta a mutamenti inspiegabili e come il meccanismo del "teatro nel teatro" riveli la verità più profonda della vita. Gli uomini si affannano in un folle girotondo e nel frattempo le fate si burlano di loro per soddisfare i propri capricci: il dissidio tra Oberon e Titania, infatti, sconvolge la natura e le stagioni mentre un magico fiore rompe le dinamiche degli innamorati che si scambiano ruoli e amanti.

In questo turbine di parallelismi e proiezioni si sviluppano le vicende del Sogno imbastito su tre piani, tre regni differenti ognuno dei quali è regolato da linguaggi e dinamiche specifiche. Il mondo delle fate è un mondo parallelo, mentre Oberon e Titania sono proiezioni Oberononiriche del duca d'Atene e della di lui futura sposa. Gli eterei sovrani però, sono più vivi degli uomini.

La legge che li governa è la natura intesa come passione, sensualità e debolezza. Non sono astratti ed inconsistenti ma masticano piuttosto passioni e pensieri senza dubbio umani. Al contrario la razionalità e la legge dominano il mondo degli uomini. Quello degli artigiani rappresenta invece il mondo dell'arte che avvicina e mette in comunicazione gli altri due e si fa portatore di un legame indissolubile tra la vita reale e quella ideale. Uno spettacolo sul dissidio continuo e inevitabile tra ragione e istinto, tra apollineo e dionisiaco, tra il bello e il bestiale che vive in ognuno di noi e sulla riflessione quanto mai attuale di come nell'uomo questi due aspetti debbano necessariamente convivere. E il ruolo del teatro ? Come Bottom e i suoi compagni, il teatro trasfigura ed esplicita, talvolta goffamente, talvolta poeticamente, quello che sono i segreti del cuore e dei sentimenti umani.

(fonte: Shakespeare web)

I partigièn


Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.


[Nino Pedretti, Al vòusi e atre poesie in dialetto romagnolo, Torino, Einaudi 2007, pp. 17-18, la poesia si intitola I partigièn]

martedì 10 agosto 2010

SALVATORE QUASIMODO


Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

lunedì 9 agosto 2010

THOMAS STEARNS ELIOT - LIRICA


Se Tempo e Spazio, come i Saggi dicono,
sono cose che mai potranno essere,
il sole che non cede al mutamento
non è per nulla superiore a noi.
Così perché, Amore, dovremmo sperare
Di vivere un secolo intero?
La farfalla che vive un solo giorno
È già vissuta per l'eternità.

I fiori che ti diedi allorchè la rugiada
Tremolava sul tralcio rampicante,
prima che l'ape volasse a suggere
la rosellina di macchia erano già appassiti.
Così affrettiamoci a coglierne ancora
Senza tristezza se poi languiranno;
i nostri giorni d'amore sono pochi:
facciamo almeno che siano divini
.

domenica 8 agosto 2010

TIBULLO - La vita migliore - Elegia I 1, (vv. 41-48)


Non ego divitias patrum fructusque requiro,
quos tulit antiquo condita messis avo.
Parva seges satis est; satis est, requiescere lecto,
si licet et solito membra levare toro.
Quam iuvat immites ventos audire cubantem
et dominam tenero continuisse sinu,
aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
securum somnos imbre iuvante sequi!


Traduzione:

Io non ricerco le ricchezze dei miei antenati e i frutti che la messe raccolta procurò all’antico avo. Mi basta un piccolo raccolto, mi basta, se è possibile, riposare nel letto e ristorare il mio corpo nel solito giaciglio. Come è bello ascoltare i venti impetuosi stando a letto e stringere la propria donna in un tenero abbraccio, oppure, quando l’Austro invernale rovescia gelide piogge, abbandonarsi tranquillo al sonno che la pioggia concilia!

sabato 7 agosto 2010

Alda Merini - Io come voi



Io come voi sono stata sorpresa
mentre rubavo la vita,
buttata fuori dal mio desiderio d’amore.
Io come voi non sono stata ascoltata
e ho visto le sbarre del silenzio
crescermi intorno e strapparmi i capelli.
Io come voi ho pianto,
ho riso e ho sperato.
Io come voi mi sono sentita togliere
i vestiti di dosso
e quando mi hanno dato in mano
la mia vergogna
ho mangiato vergogna ogni giorno.
Io come voi ho soccorso il nemico,
ho avuto fede nei miei poveri panni
e ho domandato che cosa sia il Signore,
poi dall’idea della sua esistenza
ho tratto forza per sentire il martirio
voltarmi intorno come colomba viva.
Io come voi ho consumato l’amore da sola
lontana persino dal Cristo risorto.
Ma io come voi sono tornata alla scienza
del dolore dell’uomo, che è la scienza mia.

(da "Ballate non pagate")

lunedì 2 agosto 2010

TRILUSSA _ All'ombra


Mentre me leggo er solito giornale
spaparacchiato all'ombra d'un pajaro,
vedo un porco e je dico. Addio, majale!
vedo un ciuccio e je dico. Addio, somaro!

Forse ste bestie nun me caperanno,
ma provo armeno la soddisfazzione
de potè di' le cose come stanno
senza paura de fini in priggione.

da Giove e le bestie, 1932

***

All'ombra Mentre mi leggo il solito giornale / disteso all'ombra di un pagliaio, / vedo un porco e gli dico. Addio, maiale! / vedo un asino e gli dico. Addio, somaro!
Forse queste bestie non mi capiranno, / ma provo almeno la soddisfazione / di poter dire le cose come stanno / senza paura di finire in prigione.