martedì 14 ottobre 2008

Verrà il mattino, ma è ancora notte,...

Michelangelo
La sentinella di Isaia a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un'altra volta».


Monet
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Caute previsioni
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Se da questa crisi finanziaria usciremo in tempi ragionevoli e con danni limitati — è un esito possibile, forse il più probabile, nonostante la gravità della situazione — quale sarà il modello di capitalismo nel quale entreremo dopo la crisi? Circolano in questi giorni le previsioni più estreme: nuove Bretton Woods, vincoli alla libera circolazione dei capitali, ri-regolazioni incisive dei singoli capitalismi nazionali. Insomma, un modello di capitalismo radicalmente diverso. Per quel che vale (è una previsione, non un auspicio) la mia è più cauta: il modello in cui ci ritroveremo a vivere dopo la fase acuta della crisi non sarà molto diverso da quello che è prevalso in quest'ultimo quarto di secolo, un modello neoliberale, come alcuni lo chiamano.
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Nella sua forma più estrema, si tratta di un modello nel quale i capitali sono liberi di cercare i massimi rendimenti scorrazzando per il mondo intero; i mercati dei prodotti e dei fattori sono deregolati quanto è possibile; le imprese si fanno una concorrenza intensa e i grandi investitori istituzionali premiano quelle che garantiscono nel breve periodo il massimo valore per gli azionisti; le banche e le istituzioni legali e finanziarie assecondano questa «creazione di valore» — chiamiamola così — con strumenti sempre più sofisticati; i grandi manager sono pagati come calciatori e stelle del cinema, perché, al pari di loro, fanno guadagnare molto chi li impiega; la politica, come sempre, è legata a filo doppio all'economia, da cui ricava risorse per campagne elettorali sempre più costose, e non si sogna certo di contrastare il modello prevalente, finché le cose vanno bene. Insomma, è il modello che Robert Reich descrive nel suo recente Supercapitalismo.
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Perché una previsione così cauta di fronte a una crisi così grave? Non certo perché ritenga che il capitalismo abbia giocato o debba giocare sempre con le stesse regole. O che quelle con le quali ha giocato negli ultimi anni, soprattutto in America, siano in qualche modo regole ottimali, se giudicate per i loro esiti di benessere. Di fatto, a livello mondiale, il capitalismo ha giocato con regole molto diverse: per rendersene conto basta confrontare i trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale — l'«età dell'oro» — con la fase di deregulation e globalizzazione che è seguita alla presidenza Reagan, il modello neoliberale, appunto. E poi tuttora esiste una grande varietà di «capitalismi» nazionali: quello che abbiamo sommariamente descritto prima, il capitalismo anglosassone, è sicuramente il modello dominante, ma non è affatto esclusivo, neppure tra i Paesi occidentali o a questi assimilabili. Ed è infine controverso quale di questi modelli sia «migliore» dal punto di vista del benessere dei cittadini: quello americano è sicuramente eccellente dal punto di vista della libertà, dell'innovazione, dell'efficienza, della creazione di occasioni di lavoro. Lo è anche dal punto di vista della sicurezza e della distribuzione del reddito?
.Il motivo che mi induce ad una previsione cauta, pur nel contesto degli aggiustamenti di cui si sta discutendo in questi giorni e del ruolo che i poteri pubblici stanno (provvisoriamente?) assumendo, è presto detto: non sono in discussione reali alternative nelle modalità profonde di regolazione del capitalismo. Per quanto fosse prevedibile, questa crisi ha preso in contropiede sia gli economisti, sia le classi dirigenti, economiche e politiche, dei principali Paesi occidentali: persino le sinistre si erano rassegnate a convivere col supercapitalismo e la globalizzazione. Se invece guardiamo all'esperienza del secolo scorso, ai due grandi cambiamenti di modello che allora avvennero — dall'economia liberale all'economia keynesiana negli anni 30 e 40; e poi da questa all'economia neo-liberale e alla globalizzazione negli anni 70 e 80— ci rendiamo conto che essi sono stati accompagnati/ provocati sia da crisi economiche profonde, sia da ri-orientamenti ideologici, culturali, teorici e, da ultimo, politici, altrettanto profondi. Quella keynesiana fu una vera rivoluzione, teorica e culturale ancor prima che politica; e fu una rivoluzione (alcuni direbbero una controrivoluzione) anche quella monetarista e neo-liberale, negli anni 70 e 80 del secolo scorso, anch'essa teorica e culturale, prima che politica. Nulla di questo è visibile oggi, anche se uno degli ingredienti di un cambiamento di modello — la gravità della crisi — sembra essere presente. Si potrebbe obiettare che anche nel '29 le risposte politiche e teoriche non furono subito a portata di mano e si dovettero aspettare i Roosevelt e i Keynes. Faccio però fatica ad assimilare quella congiuntura storica a quella attuale e a vedere in Barack Obama, nel caso dovesse vincere, un nuovo Franklin Delano Roosevelt. Per non dire dell'assenza di un nuovo Keynes. E dunque ricordo, a chi prevede (o auspica) radicali mutamenti, la risposta della sentinella di Isaia a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un'altra volta».
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Editoriale del Corriere della Sera di Michele Salvati - lunedì 14 ottobre 2008

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