Emigrare è anche bello. È bello conoscere ed apprendere lingue nuove, sensazioni che si muovono in spazi diversi; strade , monti e boschi, fiumi e laghi.. volti ..che si aprono per diventare memoria.E ami le terre avute in dono dalla vita e le strade e le piazze e nuovi ricordi, nel tempo, affollano la mente raccontati in lingue diverse dalla tua e non ci fai caso tanto ti appartengono e sono tuoi.Conosci l’inglese, apprendi il tedesco, hai fatto nuove amicizie e ti è piaciuto. Diritti riservati
martedì 17 agosto 2010
Il sillabario di Platone B. Bellezza …. intervista a Remo Bodei
Bello, kalos, suggerisce Socrate nel Cratilo, deriva forse da kalein, chiamare, invocare a sé, attrarre oltre i confini di una dimensione che si tratta di superare: bello è ciò che chiama a valicare un limite entro il quale l’esistenza sembra priva di qualcosa d’essenziale, incompleta. Hannah Arendt, dal canto suo, scrive in Vita Activa che nella Grecia classica i poeti e i creatori di bellezza, come tutti i demiurgoi, agiscono nell’orizzonte di libertà che si apre oltre i confini dell’oikos, oltre le mura di casa entro cui si provvede solo al necessario, alle condizioni materiali del vivere. Ciò che i poeti creano, la bellezza dunque, non ha a che fare col necessario ma con quella peculiare libertà “greca” che si staglia oltre i bisogni, oltre il mero vivere: una libertà che non è fuga da ogni impegno, misura, limite o condizionamento, ma al contrario è la libertà che, oltre il recinto domestico del necessario, conduce al centro della polis, all’agora, allo spazio politico in cui la natura umana può trovare completa espressione. Una libertà che dunque non esclude il necessario ma lo abbraccia in sé, lo include come sua condizione interna, come sua concausa, allo stesso modo che la vita in sé e per sé, la vita biologica, non vale per se stessa ma solo come condizione necessaria (e non sufficiente) del viver bene.
Bellezza, nella Grecia classica, è parola inscindibile da quell’idea di armonia, di proporzione delle parti, di misura da cui scaturiscono anche la giustizia, il valore, la sapienza: kalokagathos è la celebre crasi che unisce il bello e il buono, il buono a-, “colui che è atto” non a qualche particolare azione ma aplos, buono “semplicemente”, in quanto tale, in generale: buono a- tutto è colui che in ogni cosa riafferma la sua misura. Si parla qui dunque, in primo luogo, di bellezza di un uomo, dell’uomo bello, e di bontà dell’uomo che è “atto” alla vita, che vive fino in fondo ciò che è. Ciò non esclude che si possa parlare anche di una bellezza sensibile delle forme, della scultura, dell’architettura, o della parola del poeta: la bellezza sensibile è anzi ricercata e acclamata come perfetta armonia, corrispondenza delle parti. Ma tale riconoscimento non ci rinvia ad una settoriale bellezza sensibile dell’arte separata della vita: è la crasi del kalokaagthos ad impedircelo, è la Grecia tutta a negare la separabilità del bello dalla vita nel suo insieme, dalle azioni del quotidiano, dalla polis.
Platone non si discosta da questa visione greca della bellezza, ma approfondisce la nozione complessa di quel bello come armonia che, se frainteso con occhi moderni, rischia d’essere liquidato come canone astratto, rigido parametro oggettivo, matematica esattezza che risplende nella calcolabile armonia delle parti. Non è freddo calcolo l’armonia geometrica a cui egli pensa. Bellezza è in primo luogo seduzione: è seduzione dei corpi, come quella che colpisce Socrate travolto dall’avvenenza del giovane Carmide, ed è seduzione della mente, come la “lusinga” di cui sono maestri i sofisti, che al loro pubblico forniscono facili ed allettanti persuasioni retoriche che tutti seducono allo stesso modo, omologandoli, proprio come un cuoco che offre dolciumi ad una platea di bambini. Questo tipo di seduzione, la seduzione di certa poesia, è per Socrate senz’altro da bandire: di falsa bellezza si tratta, come lascia intendere la sua celebre condanna delle arti imitative che valse per secoli a Platone l’epiteto di “nemico dell’arte”.
Vi è tuttavia anche un’altra poesia, magistrale esempio di creazione di bellezza, per la quale Socrate riserva ben altre parole. Decisivo è qui il ruolo dell’ispirazione, dell’entusiasmo, della possessione, della theia mania. “Colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, – dice nello Ione – pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimarrà incompleto, e la poesia di chi rimane in senno verrà oscurata da coloro che sono posseduti da mania”. L’ispirazione divina conferisce bellezza e forza alla poesia, così come all’arte del rapsodo e attore che, “dall’alto del suo palco”, recita i versi dei poeti. Discutendo con il rapsodo Ione intorno alla ragione per la quale egli si mostra in grado di recitare con grande maestria e forza di persuasione solamente i versi di Omero, afferma Socrate che “tu non sai parlare di Omero per arte e per scienza, perché, se lo sapessi fare per arte, sapresti parlare anche di tutti gli altri poeti”. Come il poeta può comporre solo se si trova in quello stato di furore che lo rende “interprete degli dei”, e non autore egli stesso dei propri poemi, così Ione, quando si trova a commentare un verso di Omero, o a recitarlo nei teatri, agisce in stato di mania, fuori di senno. Un’enigmatica affinità lega Ione ai versi di Omero, tale da consentirgli di commentarli e recitarli in modo efficace e persuasivo, mentre altrettanto non gli riesce con i versi di altri poeti: è infatti la sorte divina a governare le sue parole.
Ciò differenzia l’arte di Ione da tutte le scienze che hanno invece conoscenza specifica del proprio oggetto. L’arte e la poesia divinamente ispirate, dunque, per quanto belle non sembrano avere a che fare con la conoscenza degli esperti nelle varie scienze, che a tutti e in ogni situazione sanno parlare del proprio oggetto di studi. Dunque sembra difficile che una simile bellezza senza scienza possa aiutare a formare uomini sapienti e a costruire una vera polis. Ma forse le cose non stanno proprio così: in primo luogo dobbiamo ricordare che la conoscenza scientifica, oggettiva, quella che si rivolge indistintamente a tutti e non è influenzata da ispirazioni divine di alcun tipo, è definita da Socrate nel Gorgia come “irrazionale” perché non si occupa dell’unicità delle persone a cui si rivolge. In secondo luogo, nel Teagete Socrate sostiene che anche l’arte del dialogare, proprio come la poesia ispirata, è governata dall’imprevedibile intervento del demone che indica chi non può trarre giovamento dalle sue parole. Come Ione è legato da un vincolo inspiegabile ad Omero, così anche la divina sofia è caratterizzata da un’enigmatica affinità “senza perché” che unisce i dialoganti e rende efficaci, “vere” in quanto indirizzate al fine del dialogo, le parole di Socrate.
Alla luce di queste considerazioni, dunque, possiamo ipotizzare che l’arte divinamente ispirata e la sua bellezza non siano così inutili e lontane da quella conoscenza di sé che è per Socrate l’unica cosa che conta davvero. Il suo esser posseduta dal divino la distanzia dalle scienze oggettive ma la rende anzi affine alla conoscenza di sé, cioè all’unica vera razionalità. Non per tutti è il parlare di Socrate, non di tutto parla Ione, ma solo dei versi di Omero: il suo non parlar di tutto, che lo differenzia dagli scienziati, è l’immagine, sul piano monologico in cui si sviluppa il parlare di Ione, della demonicità del dialogo. La bella recitazione dell’attore divinamente ispirato che colpisce il proprio pubblico, è un monologo che rinvia oltre se stesso, oltre la propria strutturale monologicità verso il piano divino del dialogo; in questo rinvio, che si esprime proprio nell’invasamento o ispirazione, sta la sua divinità, l’annuncio del dio di cui il poeta e l’attore si fanno “interpreti”.
Il bello, la percezione e la fruizione che di esso offre la parola del poeta posseduto dal dio, così come il gesto dell’attore in quanto “interpretazione”, icona mobile di un’invisibile origine divina che si rivela autentica autrice di quel gesto, sono manifestazioni di to theion: esse sono belle e divine in quanto sospingono alla conoscenza e al governo di sé, dunque anche al governo della polis. Il bello e l’ispirazione divina hanno dunque natura politica. La visione del bello squarcia le maglie che irretiscono lo sguardo incantato dalle imitazioni camuffate da verità: l’esperienza del bello non è solo un momento piacevole e fugace, una sospensione delle incombenze pratiche della vita, una pausa, una fuga, un tempo libero e parziale. Il bello è tale solo se la sua fruizione, il goderne dunque, contribuisce al riscatto dell’intera vita di chi in esso si imbatte, anche dei suoi gesti quotidiani indirizzati all’utile. Quell’utile che i più ritengono separato dal bello: altra menzogna da lasciarsi alle spalle, grazie all’azione della poesia divina che è appunto, ad un tempo, “dolce e utile”, edeia kai ophelime.
Fonte: http://www.pratichefilosofiche.com/
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