martedì 20 dicembre 2011

Gianni Grillo, un poeta e scrittore contemporaneo

Renato Guttuso - Wikipedia 

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 Alla controra
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Oggi è una di quelle giornate camurriosamente sciroccose. Tipica di ogni inizio d’estate qui a Marzamemi: l’aria appena smossa da qualche sbrinziata di vento, col sole che pare appiso immobile nel cielo e contorna nette le ombre. Me ne sto chiuso dentro la putìa all’ura ‘i cauru, le pale del ventilatore che girano, un languore alla vucca dell’anima: è già tardi e ancora penso a cosa mi posso preparare. Silenzio assoluto, nessuno peri peri, anche i cani vinti dalla calura, hanno smesso di rincorrersi e sonnecchiano ansimanti all’ombra della “Casa del marinaro”.
Un improvviso attenuarsi della luce mi dà la sensazione che sia entrato qualcuno. Ma è soltanto un’impressione. Sono un poco sciassato, seduto con la testa riversa sul bancone, un forte odore di melanzane fritte che viene dalla signora che abita di fronte mi fa ricordare che non ho ancora mangiato. Penso di andare in cucina a prepararmi qualcosa. Mi sollevo dalla sedia e l’impressione diventa percezione: no, non sono solo.
All’ingresso, tra i battenti della porta accostati, si staglia incerta la figura di una donna dalla pelle color del latte di capra appena munto. Bianca, diafana, che a vederla sembra un pilu di palumma che abbola leggero nell’aria. La circonda l’intenso profumo dei gelsomini di notte. Le gambe mi si ammosciano. Lo scirocco fa brutti scherzi,penso. Ma non me la sono immaginata, è viva, messa lì al centro della stanza, con le gambe aperte e i piedi minuti dentro a sandali di cuoio. Le unghia pittate di rosso corallo spiccano sul bianco della pelle ed il nero della vestina.

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Museo Guttuso

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La ragazza ha un sorriso indeciso e due occhi di un azzurro intenso che mi stanno interrogando timidi.
< Vuole bere o magari ha fame? >, faccio con la voce che mi resta in gola.
< Quello che vuoi tu>, mi risponde, mentre l’intera corporatura, alta ma abbastanza minuta, sembra sciogliersi.
< Stavo appunto pensando di prepararmi qualcosa >.
E allora me la porto in cucina. Ma prima chiudo a chiave dall’interno la porta del negozio dopo avervi appeso il cartello “Sono andato a mangiare”, che è pure vero; e mi avvio a cucinare calmo e col cuore in festa, sicuro che i paesani sfacinnati, con questo caldo non hanno la valìa di uscire in strada. E comunque il cartello li terrà lontani.
Tra i fornelli sono molto bravo; retaggio di quando ho fatto il militare, da imboscato nelle cucine. In un niente riesco a preparare certe prelibatezze che chi ha la fortuna di assaggiarle resta amminchiunutu e pretende il bis. L’odore di melanzane fritte mi ha messo un disio di caponata; e che caponata sia!
Per uno sprattico sarebbe un’operazione lunga e complicata, ma per me che negli anni ho imparato a dovere dare spesso arenzia ai forestieri che si presentano accaldati e affamati in cerca di qualcosa da mangiare, è diventata quasi un’abitudine, come ad ottemperare un’opera di misericordia. E poi cucinare a me piace, specie quando riesco a dare spazio alla fantasia, apportando delle varianti alle ricette classiche: mi fa sentire bravo ed importante.

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La faccio assittare comoda nella poltrona di vimini comprata alla fiera, da un marocchino che ne giurava l’originalità magrebina; e lei comincia ad aprirsi, senza che io le faccia particolari domande. Si chiama Rasa ed è lituana. < Conosci Vilnius? È la capitale. > La guardo ammammaluccuto; mai sentita nominare prima, al meno così mi pare al momento. < Ma tu non sei qui di passaggio; parli troppo bene l’italiano. > Mi guarda intensamente e sorride divertita. A me sembra di annaspare nell’azzurro del suo sguardo. < Sono in Italia da cinque anni oramai. Studio informatica applicata alle scienze bancarie, presso l’università di Perugia. > Dentro di me le domande abortiscono prima di vedere la luce delle labbra. Già mi ha messo in soggezione ed ho paura di fare un’altra brutta fiura. Mi limito anche a guardarla per paura di anniare nel mare dei suoi occhi. Non riesco a concentrarmi. Ma intanto mi ha preso un disìo di mangiarmela!
Taglio le melanzane a cubetti e le metto in una ciotola con acqua salata. Forse ho abbondato; ma chi se ne importa? Avanzerà per domani: la caponata, mangiata il giorno dopo è sempre più saporita! La buccia delle melanzane è lucida e morbida, e mentre la maneggio mi sembra di carezzare la sua pelle. Sento che mi guarda attenta. Avverto il suo respiro come una promessa trattenuta. Prendo il sedano dal frigo e lo lascio bollire per cinque minuti. Metto i capperi nell’acqua calda per togliere il sale. Mi chino per prendere la padella, sotto il lavandino. Avverto il peso del suo sguardo e per un attimo sbando, come travolto dall’onda di uno tzunami. Verso l’olio e la osservo regalandole un sorriso che vuole essere una promessa. La cipolla mi fa lacrimare; gli occhi si fanno lucidi e mi danno un’aria indifesa, rassicurante, così da dissimulare le mie vere intenzioni. Non so se in maniera tale da tranquillizzarla. O, vai a capirle le donne, forse in cuor suo ne rimane delusa.
Le olive! A forza di fantasticare, quasi me ne dimenticavo. Quattro pomodori maturi, li sbuccio e, senza semi, li aggiungo. Si forma una salsina densa e rossa; giro con la cucchiaia di legno mentre accenno, fischiettando, “ciuri ciuri”. Lo sento: “ho il cuore nello zucchero”! Nella vita ci vuole passione e pazienza, vado rimuginando; non so se sto pensando alla caponata, però. Le mie mani si muovono tra i fornelli come guidate da un ritmo silenzioso. Strizzo le melanzane, le asciugo tirando un forte sospiro, le friggo. Metto il tutto nella salsa, mescolo per cinque minuti a fuoco molto lento. E’ quasi pronta, manca ancora la cosa più importante: l’agrodolce. Sembra un dettaglio, ma è fondamentale indovinare il dosaggio. Mentre lascio decantare il tutto, quasi in cerca di ispirazione, mi avvicino a lei e le rubo una carezza. Lei tace, ma ricambia con un sorriso imbarazzato. E’ il segnale che attendevo. Assaggio un pizzico di salsina e accosto le labbra ancora umide alla sua bocca. Per un attimo resto stordito, ma torno subito ai fornelli. In un bicchiere d’aceto bianco faccio sciogliere un cucchiaio colmo di zucchero, lo verso nel tegame, poi aggiungo mandorle e basilico. Il rito si è consumato.
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Artisti: Renato Guttuso.

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Accendo il ventilatore. Sulla tavola, il pane di casa e una bottiglia di “Damaschino” bianco gelato. Mi siedo accanto a Rasa e in un silenzio quasi mistico attacchiamo quel cibo che fin dall’inizio mi tormenta l’anima e la pancia. Lei si lascia condurre docilmente e con gesti calmi mangia lentamente come una vecchia compagna di vita. L’imbarazzo iniziale sembra svanito e un’atmosfera di profonda intimità sembra rivestire le pareti del mio negozietto.
La caponata è tiepida, sugosa. Le melanzane colano un umore gelatinoso, e quel poco di rosa dell’estratto di pomodoro ha il colore della pelle delle bionde. I capperi, nascosti tra gli ingredienti, li puoi indovinare quando li schiacci tra lingua e palato. La cipolla è talmente fina, quasi evanescente, che nemmeno te ne accorgi, e si accompagna in maniera ideale con le altre verdure. Avvicino la bottiglia col vetro verde ricoperto di brina al viso di Rasa. Mi regala un sorriso colmo di sollievo. Verso un bicchiere abbondante e quasi all’unisono parte il cin cin! Un dolce odore di pesca bianca, pompelmo, foglie di pomodoro e timo selvatico si spande nell’aria. Bevo a piccoli sorsi e le note speziate e agrumate mi solleticano il naso mescolandosi con l’odore di donna che mi si è materializzata all’improvviso in maniera così insperata. Lei non parla, ma mi sorride, non desidera altro che io mi avvicini un po’ di più. La sfioro leggermente, con la lingua piatta e morbida. Sospira un poco, si vede che non ce la fa più; ma abbiamo deciso in maniera tacita, che prima dobbiamo finire quella pietanza il cui profumo ora minaccia ora promette. L’attesa non può che aumentare il desiderio. Il piatto è quasi vuoto quando mi accorgo del caldo insopportabile e mi tolgo la maglietta. Le sorrido e farfuglio una scusa: <…il caldo,…il vino >. Lei annuisce comprensiva e di botto si libera della sua veste di cotone nero, esibendo il candore della pelle.
< Così va meglio >, sospira.
Allora mi alzo e sollevandola di peso la conduco nell’angolo più buio del negozio. Quasi l’appendo al muro, a lato di un mazzo di peperoncini, all’altezza dei miei occhi. Il silenzio si spande denso di misteri come quello di una cattedrale durante un rito solenne. Ascolto il suo respiro ansioso sul collo, i suoi occhioni blu perduti chissà in quale savana. Le gambe sembrano tralci di vite innestate alle mie. Sento il piacere spandersi per ogni centimetro della mia pelle. Devo controllarmi, gustarla lentamente, come si fa con la caponata. Comincio a muovermi sapientemente, senza esitazione, mentre sento gli artigli delle sue dita che affondano dietro la nuca. Se poco rallento il ritmo, per riprendere ciato, lei mi si avvinghia di più, procurandomi una fitta dolorosa dietro la schiena. Vorrei non dovesse finire mai, mentre avverto che sta per scoppiare. I mugolii si fanno sempre più intensi ed ecco che si mette ad urlare. Faccio appena in tempo a tapparle la bocca con la mano. Non vorrei diventare la novella estiva per i vicini; meglio lasciare che il segreto resti tra i confini dei nostri corpi. Anch’io, quasi all’istante, mi perdo nel suo mare accogliente. Ancora un attimo e mi volto di fianco. Di botto lei si alza e sparisce; penso sia andata di là per ricomporsi. Intanto vino e caponata fanno sentire i primi effetti. Approfittando di questo momento di solitudine mi sciolgo in un rutto liberatorio.
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Renato Guttuso - Il Bosco d'amore


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