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Jean Béraud |
Dora Markus
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Fu dove il ponte di legno
mette a porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s'affondava
una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un'antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d'Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
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La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d'avorio; e così esisti!
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Jean Béraud |
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Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
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La sera che si protende
sull'umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d'oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
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La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d'oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta nell'ora
che abbuia, sempre più tardi.
.È scritta là. Il sempre verde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino...
Ma è tardi, sempre più tardi.
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Jean Béraud |
La
lirica consta di due parti distinte, scritte a molti anni di distanza
l'una dall'altra: la prima parte risale infatti al 1928, o al 1926,
mentre la seconda è del 1939. Per comprendere la complessa origine della
poesia, è necessario richiamare alcuni dati biografici dell'autore.
Montale non conosceva, né conobbe mai, Dora Markus: aveva solo visto una
fotografia delle sue gambe, inviatagli dall'amíco Bobi Bazlen col
seguente biglietto datato 25 settembre 1928: «Gerti e Carlo: bene. A
Trieste, loro ospite, un'amica di Gerti, con delle gambe meravigliose.
Falle una poesia. Si chiama Dora Markus». La data del biglietto
spingerebbe ad ascrivere al 1928 la prima parte della lirica, ma Montale
sosteneva di averla scritta due anni prima, nel 1926, senza riuscire a
concluderla («è l'inizio di una poesia che non fu mai né finita né
pubblicata e non lo sarà maí»). La Gerti nominata da Bazlen è Gerti
Frànkel Tolazzi, una signora di Graz che Montale conosceva bene e che
nel 1928 gli ispirò la poesia Carnevale di Gerti, compresa anch'essa
nelle Occasíoni. Nell'immaginario del poeta la sconosciuta Dora finí con
l'assimilarsi a Gerti, tanto è vero che quando nel 1939 Montale decise
di ritornare su Dora Markus («Alla distanza di 13 anni (e si sente) le
ho dato una conclusione, se non un centro») il personaggio femminile
non è piú la fantomatica Dora, ma proprio Gerti: a lei che occupa la
seconda parte di Dora M. lo Dora non l'ho mai conosciuta; feci quel
primo pezzo di poesia per invito di Bobi Bazlen che mi mandò le gambe di
lei in fotografia» (lettera a Silvio Guarnieri del 1964). Il
complicato intrecciarsi di proiezioni fantastiche e psichiche che
presiede all'accidentata gestazione della lirica fa di Dora Markus uno
dei componimenti piú misteriosi e segreti, ma anche piú ricchi di
oggetti-simbolo e di «occasioni» taciute e infine risolte in una
disperata e buia visione della realtà del 1939, con gli orrori che la
storia stava preparando - dell'intera produzione montaliana.
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Jean Béraud |
RIFLESSIONI SUL TESTO
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Abbiamo
già visto come Dora Markus sia un personaggio sostanzialmente di
fantasia, un mito poetico. La questione della controversa datazíone
della prima parte della lirica potrebbe acquisire nuove prospettive
proprio alla luce della correlazione fra Dora e un altro personaggio di
fantasia comparso nella seconda edizione degli Ossi di seppia, Arsenio.
Ammesso che ambedue i personaggi siano proiezioni della soggettività
del poeta (e certo sarebbe difficile negarlo), è interessante cogliere i
differenti atteggiamenti che essi rivelano nel loro rapporto con la
realtà. Arsenio è ancora alla ricerca di una via d'uscita, di un
mutamento rispetto a quel «troppo noto / delirio ... d'immobilità» fatto
presagire dal temporale imminente; e nel momento in cui il temporale
giunge, sperimenta dolorosamente la propria incapacità di calarsi in una
nuova e piú autentica dimensione, a causa della resistenza opposta
dalle «radici» che «con sé trascina, viscide, non mai / svelte», e
quindi dalla sua stessa storia di individuo. Dora invece appare animata
da un'inquietudine che rimane in superficie (proprio come da
superficiali variazioni di colore dipende l'«iridare» delle scaglie /
della triglia moribonda), mentre il suo cuore è un lago /
d'indifferenza. Ogni speranza di mutamento è per lei spenta, e il suo
destino è quello di brancolare senza meta attirata come una falena dalla
luce dei fari, afferrandosi per sopravvivere all'incerta fede in
qualche inutile amuleto. Non sembra arbitrario insomma vedere in Dora
Markus un Arsenio dopo il temporale, riafferrato dall'«onda antica»
della vita di sempre e ormai dimentico di ogni tensione a individuare A
segno di un'altra orbita»: il «fantasma che ti salva» degli Ossi è
ormai ridotto a un topo bianco, / d'avorío. Lo sviluppo logico della
visione del mondo montalíana sembrerebbe perciò indicare per Dora
Markus una datazione posteriore al 1927, anno in cui il poeta scrisse
Arsenio, e dunque confermare la testimonianza offerta dal biglietto di
Bobi BazIen citato sopra, in base al quale la composizione della prima
parte della lirica dovrebbe collocarsi dopo il settembre 1928.
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(V.De Caprio, S.Giovanardi "I testi della letteratura italiana"Ed.Einaudi . Pp 911-916)
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Le gambe di Dora Markus che ispirarono la poesia |