mercoledì 15 settembre 2010

Arthur Rimbaud secondo ROBERTO MUSSAPI


UN GRIDO LEVATO VERSO IL CIELO

''Non esiste vera poesia che non parli dei suoi lettori, quali che siano, e non li costringa a prendere coscienza almeno di una parte di ciò che sono''. Partiamo bene: una definizione fulminante della poesia, di uno dei suoi maggiori rappresentanti contemporanei, Yves Bonnefoy. È vero, una vera poesia parla a me che la sto leggendo, certo, ma parla anche di me, proprio mentre la sto leggendo. Io sono un poeta, ma la stessa poesia parla anche al lettore che non è né scrittore né letterato, e scorrendo i suoi versi egli si accorge che il poeta sta parlando di lui. Ecco perché dopo la lettura di una grande poesia noi abbiamo la sensazione di sapere già quanto abbiamo letto, di averlo conosciuto un tempo, ma poi dimenticato. La poesia ridesta cose che sapevano di noi stessi, e che erano svanite misteriosamente, come miracolosamente riappaiono.

Queste parole leggiamo all’inizio del saggio in cui Yves Bonnefoy raccoglie e organizza una summa delle sue riflessioni e pubblicazioni su Arthur Rimbaud, il grande poeta francese divenuto simbolo della poesia stessa e della sua radicale potenza rivoluzionaria ('Rimbaud. Speranza e lucidità', uscito da Donzelli mentre Mondadori sta per dare alle stampe il Meridiano che raccoglie 'L’opera poetica' di Bonnefoy). L’esordio è straordinario: afferma che Rimbaud è stato causa della conoscenza di se stesso, come pochi altri poeti. Dante, Shakespeare, Yeats, splendono nella costellazione di Bonnefoy, ma il duo Baudelaire-Rimbaud ha un ruolo centrale, inevitabilmente: sono francesi, cioè maestri della lingua in cui egli scrive, e moderni, affacciati al mondo in cui Bonnefoy inizia la sua avventura poetica. Sono consanguinei per lingua, vicini per epoca, ma non tanto da essere avvolti nell’aura assoluta del classico. Ancora capaci di presenza vivente, non esclusivamente esemplare come saranno quelle di Leopardi e William Butler Yeats, per non parlare di Shakespeare. Rimbaud non è un poeta che splenda nella mia costellazione, a differenza di Coleridge, Keats, Foscolo, Rilke, del suo connazionale Baudelaire, di Eliot. Ho superato da lustri l’antipatia per la sua mitologia esistenziale: scappa di continuo del villaggio in cerca di avventure, fugge col poeta Verlaine scoprendo una natura omosessuale, si esalta per la rivoluzione e il progresso, termina precocemente la sua precocissima stagione poetica per scomparire in Africa con attività più confuse che misteriose. Il maledettismo di Rimbaud, divenuto mito per molti poeti suggestionabili, mi dava fastidio, come in pittura il pagliaccio con la lacrima. Ma, ripeto, da almeno trent’anni mi sono liberato da questo condizionamento. Le mie riserve su questo comunque grande e ineludibile poeta si basavano sulla sua empietà, sul rifiuto del divino identificato, a mio parere in modo adolescenziale, con la società borghese e l’Europa cristiana.

Sentivo più vivo, eroico, il cammino notturno di Baudelaire nella Parigi popolosa e sinistra, i lampi di luce e compassione, l’anelito, nel buio, alla bellezza. All’empietà di Rimbaud, il nulla metafisico in un cielo limpidissimo e su campi verdi di bellezza radiante, preferisco l’empietà di Yeats, la sua troposfera e i suoi laghi irlandesi popolati di divinità pagane o animistiche, impregnati di mistero. Ma il saggio di Bonnefoy, nella sua dimensione completa, costringe a moderare la mia posizione critica: in questa summa, più che nei saggi in essa contenuti e letti nel passato, emerge la potenza di un poeta che interroga il cielo, lo vede vuoto, e affida la speranza a un grido. Un verso. Una speranza cieca, un’affermazione di vita meravigliosa nel suo nichilismo.

Rimbaud non trova Dio ma non lo irride. Lo provoca, lo cerca, e non sentendone la risposta si butta nella piena bellezza del reale, nell’estasi delle cose, nell’unico caso di panismo moderno. Senza pace. Ma, come insegna il grande Bonnefoy, «non esiste forse mai pace in quell’impresa fondamentalmente duale che viene detta poesia
».

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