Economia: Ma cos'è la crisi davanti alla Storia?
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di Max Hastings - - Davanti al pericolo l'essere umano azzarda quasi sempre valutazioni sbagliate. Saggi osservatori si arrovellano su una data questione — il «pericolo rosso», Al Qaeda —, per ritrovarsi alle prese con problematiche diverse.
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di Max Hastings - - Davanti al pericolo l'essere umano azzarda quasi sempre valutazioni sbagliate. Saggi osservatori si arrovellano su una data questione — il «pericolo rosso», Al Qaeda —, per ritrovarsi alle prese con problematiche diverse.
L'effetto più evidente della crisi finanziaria che scuote l'Occidente è, a quanto pare, la messa in luce della futilità della «Guerra al Terrore» del presidente Bush. Il terrorismo, va da sé, è un problema serio. Ma che non pone alle società occidentali la minaccia di una catastrofe sistemica. A suscitare tanta e tale paura nell'attuale crisi finanziaria, per contro, è il fatto che nessuno si dice certo di comprendere fino a che punto la situazione possa degenerare. I governi statunitense e britannico si arrabattano alla ricerca di palliativi, invece di proporre soluzioni almeno plausibili. Appena due mesi fa, gli economisti tratteggiavano con apprensione il 2009 come un anno pessimo. Oggi, tuttavia, appare evidente che, anche nello scenario più favorevole, sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna avranno bisogno di molto più tempo per riemergere da quest'incubo. Quanti hanno una testa sulle spalle temono giustamente per il proprio posto di lavoro, la propria casa e i propri risparmi. L'atteggiamento compiacente persiste soltanto tra chi è troppo sciocco per comprendere quanto il pasticcio sia grave, o troppo giovane per immaginare una società non più in grado di offrire una gratificazione istantanea ai nostri bisogni e desideri. Ricordo che un giorno, in un normale frangente di vita familiare, mia figlia scandì: «Sai papà, la vita non è fatta che di abitudini».
Mi è sembrata una considerazione di inconsapevole profondità. In tempi di guerra o di pace, gli individui trovano grandi difficoltà ad accettare l'idea che il loro habitat — fisico, sociale o economico — possa subire radicali trasformazioni. Durante la Seconda guerra mondiale, Churchill spiegò tale fenomeno al capo di Stato Maggiore imperiale, il generale Sir Alan Brooke, coniando la teoria del «tubo da tre pollici» con riferimento alle reazioni dell'essere umano.
Gli uomini, sosteneva, hanno una capacità ben limitata di assorbire eventi drammatici; una capacità pari a quella, per l'appunto, di un tubo da tre pollici. Superata la quale, tutto ciò che avviene intorno a loro scivola via, travolto da un'ondata di emozioni. Molti individui, tra cui lo stesso Brooke, fecero esperienza diretta di tutto ciò nella Gran Bretagna del 1940. Così tante e forti sensazioni si affastellavano, allora, che spesso non arrivavano a esercitare l'effetto meritato; a tutto vantaggio, va detto, del morale della nazione. Una discreta conoscenza della Storia può aiutarci a osservare dalla giusta prospettiva le disavventure di cui oggi siamo protagonisti. La lettura, prima di coricarsi, del diario di Samuel Pepys, ad esempio, può servire da formidabile correttivo per chi è tanto sciocco da credere che la nostra epoca sia insidiosa come nessun'altra. Pepys visse e lavorò da funzionario statale, in un'epoca nella quale tutti, o quasi, temevano per la propria testa, salute e sorte.
E anche se si unì ai festeggiamenti per la restaurazione della monarchia nel 1660, negli anni che seguirono al governo di Re Carlo II non sembrò mai affrancarsi da questo stato di precarietà. Pepys fece una brillante carriera al ministero della Marina, ma non poté mai contare su una benché minima sicurezza. Nel 1665, la Grande Peste si abbatté su Londra. L'anno seguente, Pepys assisté al Grande Incendio.
Le finanze della nazione iniziarono a traballare. In data 8 settembre, il diarista scrive: «Mi sono svegliato e (…) in barca a White-hall. Mi sono fermato con Sir G. Carteret per pregarlo di venire con noi e chiedergli ragguagli circa il denaro. Ma nel primo caso spiega che non può, e nel secondo che riuscirà a fare ben poco, ovvero dice: "Dove possiamo procurarcene, o che dobbiamo fare per averlo?" Pare che egli si occupi della corrispondenza giornaliera tra i poteri cittadini e il Re, e di sistemare gli affari». Tutti nutrivano la convinzione, all'epoca, che difficilmente la situazione sarebbe peggiorata, eppure così avvenne.
Nel giugno seguente, la flotta olandese risalì il fiume Medway, a Sud dell'Inghilterra, e diede alle fiamme l'arsenale di Chatham. Pepys, scosso e in preda al terrore, trasferì il suo denaro via da Londra, e scrisse: «(…) Ho così tanta paura che questa sia la fine del nostro regno (…) Che Dio ci protegga, e ci salvi dai disordini nei quali possiamo trovarci sin da domani». (Il diario di Samuel Pepys, Bompiani, 1941). Le crisi in tempo di pace, epidemie, calamità naturali o tracolli finanziari, sono spesso più difficili da fronteggiare delle crisi in tempo di guerra. La gente si scopre relegata a un ruolo di vittima, incapace di influire sul proprio destino.
Un aspetto significativo del genio di Churchill, nel 1940-41, risiedeva proprio nella convinzione che il popolo britannico avesse bisogno di sentirsi coinvolto e partecipe, e non semplicemente uno spettatore passivo, dinanzi al mostro nazista. Il frenetico lavoro nelle trincee e nelle formazioni di milizia territoriale, all'atto pratico, servì a ben poco. Ma ebbe l'inestimabile merito di far sentire alla gente comune che stava «facendo la sua parte».
Nella memoria collettiva del popolo britannico, l'esperienza più travagliata non si rispecchia nella guerra, che offrì importanti stimoli con un'insita forza di compensazione, bensì nel periodo ad essa successivo. Al crepuscolo degli Anni 40, vigeva ancora il razionamento dei beni alimentari. La penuria di combustibili si acuiva.
E, con le nevicate del '47, la popolazione subì mesi e mesi di dolorose privazioni. D'improvviso, i cittadini britannici si resero conto che, pur essendo usciti vincitori dal conflitto, avevano subito una pesante sconfitta sul fronte della pace. Il loro impero stava scomparendo. Il trionfalismo e la ricchezza americana stridevano con l'amarezza e la povertà britannica. Il giorno in cui nacqui, nel dicembre del 1945, mio padre scrisse per me una lettera, che poi ricevetti in occasione del mio 21esimo compleanno, nella quale descriveva il mondo così come allora appariva. «Nell'arco della mia vita — diceva —, questo Paese, da nazione tra le più ricche al mondo qual era, è diventato una delle più povere».
La grigia e mesta austerità del periodo postbellico risultava tragicamente ingiusta agli occhi al popolo britannico, che si era oltremodo sacrificato per opporsi da solo ai dittatori. Ecco, la lezione di Storia può benissimo terminare qui.
La tesi che intendo proporvi è molto semplice: se paragoniamo le odierne sventure a quelle di epoche passate, dovremmo ricavarne sufficiente coraggio per tener testa alla crisi del credito. Il capitalismo occidentale risente del più che meritato colpo inferto alla sua hybris. Ma è quasi indubbio che esso possieda sufficiente reattività, energie e immaginazione per uscirne a testa alta. Oggi non siamo alle prese con una minaccia alla nostra salute o sicurezza fisica e alimentare paragonabile a quelle subite dalle generazioni di Pepys, Churchill e molti altri dall'ultimo millennio a questa parte.
Se il danno peggiore che possiamo subire è la perdita di un po' di denaro, non è certo il caso di ingigantire troppo il problema. Qualche anno fa, mentre cercavo a New York un libro sull'Europa degli anni 1944-45, mi imbattei in un'affascinante signora, di nome Edith Gabor, che era sopravvissuta a diversi campi di concentramento nazisti. Dopo aver ascoltato per circa tre ore la sua storia, mi ritrovai sul marciapiede di fronte al suo appartamento, in attesa di un taxi per l'aeroporto Kennedy, da dove avrei preso il volo di ritorno a Londra. Il taxi non arrivò. All'inizio reagii spazientito, poi visibilmente irritato. Edith, ottuagenaria ebrea ungherese, rotondetta e minuta, si avvicinò e si piazzò al mio di fianco. Rideva di cuore. «Si rilassi!», disse. «Non è così importante! Quando si è stati in un campo di sterminio, si impara a capire che perdere un aereo non è poi la fine del mondo». Mi vergognai di aver ceduto all'ansia e al nervosismo, dinanzi a questa donna, per insulse ragioni, com'è tipico della nostra, oltremodo privilegiata generazione. La crisi del credito desta allarme, certo. Ma vista della cornice degli eventi che hanno segnato l'epoca moderna, come quelli sperimentati in prima persona da Edith Gabor, non sembra poi la fine del mondo.
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Articolo ripreso da Il Corriere della Sera del 09.10.2008
Copyright Guardian News & Media 2008 (traduzione di Enrico Del Sero)
Copyright Guardian News & Media 2008 (traduzione di Enrico Del Sero)
1 commento:
molto interessante ciao
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