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mercoledì 20 ottobre 2010

Seneca - Epistole a Lucilio, 1


"La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi",
sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che
"mentre si attende di vivere, la vita passa":
"comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andavColore testoa perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo:
certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento.
Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza.
Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno?
Ecco il nostro errore:
vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata.
Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi:
metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente.
Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va.
Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro.
La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene.
Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire"
(Epistole a Lucilio, 1).


venerdì 20 agosto 2010

La bellezza salverà il mondo - Intervista a Roger Scruton, filosofo inglese


Se la bellezza salverà il mondo, la cultura potrebbe redimerlo. Ma oggi il sapere è minacciato dai «nuovi media» che minacciano il pensiero autentico. È quanto sostiene Roger Scruton, filosofo inglese e docente all’Institute for the Psychological Sciences di Washington e Oxford,
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Nel suo libro «La cultura conta» ( Vita e Pensiero), lei afferma che se manca la dimensione etica dell’uomo, anche la sua capacità decade. Vale anche per l’arte l’assioma morale di Dostoevskij: ‘Se Dio non esiste, tutto è possibile’?
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«Molte persone che possiedono un sentire morale non credono in Dio, e sospetto che pochi umanisti sarebbero d’accordo con Dostoevskij. Penso che la vita morale punti verso Dio, anche se essa può esser praticata da persone che non Lo trovano o non Lo cercano. In modo simile, l’esperienza estetica e il sentimento della bellezza puntano verso Dio mostrando che questo mondo è intrinsecamente pieno di significato, come se fosse illuminato da una fonte trascendentale. La bellezza sta a fianco del sacro come una finestra su tale sorgente. Un tempo l’arte era fondata sulla religione e al suo sommo grado essa è spesso stata creata a servizio della religione. Anche l’arte che non cita Dio può avere una forza religiosa, come il Tristano e Isotta di Wagner. Questo avviene perché la bellezza ci apre al pensiero che la nostra esistenza non viene solo consumata, bensì è redenta».
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Nello stesso libro lei afferma che la cultura è generata da una religione. Oggi, lei denuncia, la cultura occidentale si qualifica in senso negativo e non più propositivo: ad esempio come strutturalismo, post¬modernismo… Perché questa visione ‘negativa’ della cultura?
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«Dietro ogni cultura vi è una tradizione religiosa che la nutre. E se questa si indebolisce, la cultura rimane senza nutrimento spirituale e decade. Lo abbiamo visto nella spiritosa satira dell’arte che si trova alla Biennale di Venezia o alla Tate Gallery a Londra. Senza radici spirituali l’arte diventa un fantasma, piena di livore e derisione ma senza il dono della bellezza. Un artista può perseguire il bello solo se guarda alla realtà come un dono che va accolto con gratitudine e se compie la sua opera come espressione di gratitudine. L’arte deve essere seria, riconoscendo che gli esseri umani non sono semplicemente macchine di piacere ma creature con un destino spirituale. Non tutti gli artisti hanno rotto con tale eredità. Nella musica vedo molti compositori che lottano per mantenere viva questa eredità. Ma vi sono giovani musicisti che hanno perso ogni fiducia nel trascendente, e quindi vengono attratti dai metodi del ‘criticismo’, quel post-strutturalismo e post¬modernismo che lei citava, i quali rimuovono tutte le tracce di significato. Nella nostra cultura è all’opera un nichilismo attivo che proviene dalla delusa amarezza di quelle persone che non riescono a trovare la fede».
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In che modo il Dio cristiano a che fare con la bellezza? «L’arte è un omaggio alla forza creativa che guida l’universo, un tentativo di incorporare, dentro confini umani, l’esperienza di un mondo che è al contempo creato e offerto. Una volta l’arte aveva un posto indiscutibile nel culto religioso, non solo in quello pagano ma anche nelle chiese cristiane. L’islam ha allontanato l’arte figurativa dalla moschea, ma non ha espulso la bellezza. Ha cercato di abbellire il luogo di culto in un modo che potesse essere un tributo degno di quel Dio che lì veniva adorato. Quest’abitudine di offrire in un luogo di culto ciò che è più bello vien testimoniato in tutto il mondo, nel giudaismo, nell’induismo e nel buddismo, nella semplice moschea del deserto o nei gloriosi santuari dei santi cristiani. L’oggetto meraviglioso è al di fuori dell’ordinario corso degli eventi umani. Esso richiede riverenza, rispetto e anche coscienza di chi andiamo ad incontrare. Mi sembra, comunque, che la bellezza punti verso il Dio del cristianesimo piuttosto che gli dei dell’antichità o Allah. Questo, perchè il Dio cristiano è un Dio incarnato, che condivide la nostra situazione ed è presente nelle nostre vite. Egli può essere rappresentato nell’arte e la nostra tradizione di pittura e scultura ci ha condotto ad un’intima relazione con Lui. Egli si è dispiegato anche nella musica e nei lavori dei poeti. E non si può conoscere la grande tradizione dell’arte e della musica europea senza capire che qui vi è qualcosa di molto più grande che è stato raggiunto rispetto a qualsiasi altra civiltà. Certo, questo non è politicamente corretto da dire. Ma è vero».
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In Italia vi è sempre più attenzione all’’emergenza educativa’, una questione che ha a che fare con la trasmissione della cultura. Se dovesse scegliere una priorità su questo, cosa indicherebbe? «Tale emergenza non è solo italiana, esiste dovunque in Europa e, sebbene il declino della religione cristiana sia parte del problema, non riguarda solo il cristianesimo. La medesima emergenza colpisce i figli dei musulmani e i genitori ebrei. Tutti sono colpiti dall’influenza dei nuovi media che riescono a distruggere la conoscenza in maniera immediata. La tv, i videogiochi, i cellulari e gli i-pod bombardano i sensi dei giovani con immagini che distraggono, suoni violenti e che sostituiscono il pensiero. In molti casi è impossibile penetrare la barriera di nonsense con cui i giovani circondano se stessi. Assistiamo all’emergere di un nuovo tipo umano che possiede tutto ma ha perso l’uso del linguaggio e la capacità di offrirsi nell’amore e nell’amicizia. La Chiesa ha un ruolo nell’avvertire le persone sui danni cerebrali e spirituali che derivano da queste forme di comunicazione».
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Fonte : Lorenzo Fazzini – Avvenire, 8 dicembre 2009

martedì 17 agosto 2010

Il sillabario di Platone B. Bellezza …. intervista a Remo Bodei


Bello, kalos, suggerisce Socrate nel Cratilo, deriva forse da kalein, chiamare, invocare a sé, attrarre oltre i confini di una dimensione che si tratta di superare: bello è ciò che chiama a valicare un limite entro il quale l’esistenza sembra priva di qualcosa d’essenziale, incompleta. Hannah Arendt, dal canto suo, scrive in Vita Activa che nella Grecia classica i poeti e i creatori di bellezza, come tutti i demiurgoi, agiscono nell’orizzonte di libertà che si apre oltre i confini dell’oikos, oltre le mura di casa entro cui si provvede solo al necessario, alle condizioni materiali del vivere. Ciò che i poeti creano, la bellezza dunque, non ha a che fare col necessario ma con quella peculiare libertà “greca” che si staglia oltre i bisogni, oltre il mero vivere: una libertà che non è fuga da ogni impegno, misura, limite o condizionamento, ma al contrario è la libertà che, oltre il recinto domestico del necessario, conduce al centro della polis, all’agora, allo spazio politico in cui la natura umana può trovare completa espressione. Una libertà che dunque non esclude il necessario ma lo abbraccia in sé, lo include come sua condizione interna, come sua concausa, allo stesso modo che la vita in sé e per sé, la vita biologica, non vale per se stessa ma solo come condizione necessaria (e non sufficiente) del viver bene.



Bellezza, nella Grecia classica, è parola inscindibile da quell’idea di armonia, di proporzione delle parti, di misura da cui scaturiscono anche la giustizia, il valore, la sapienza: kalokagathos è la celebre crasi che unisce il bello e il buono, il buono a-, “colui che è atto” non a qualche particolare azione ma aplos, buono “semplicemente”, in quanto tale, in generale: buono a- tutto è colui che in ogni cosa riafferma la sua misura. Si parla qui dunque, in primo luogo, di bellezza di un uomo, dell’uomo bello, e di bontà dell’uomo che è “atto” alla vita, che vive fino in fondo ciò che è. Ciò non esclude che si possa parlare anche di una bellezza sensibile delle forme, della scultura, dell’architettura, o della parola del poeta: la bellezza sensibile è anzi ricercata e acclamata come perfetta armonia, corrispondenza delle parti. Ma tale riconoscimento non ci rinvia ad una settoriale bellezza sensibile dell’arte separata della vita: è la crasi del kalokaagthos ad impedircelo, è la Grecia tutta a negare la separabilità del bello dalla vita nel suo insieme, dalle azioni del quotidiano, dalla polis.





Platone non si discosta da questa visione greca della bellezza, ma approfondisce la nozione complessa di quel bello come armonia che, se frainteso con occhi moderni, rischia d’essere liquidato come canone astratto, rigido parametro oggettivo, matematica esattezza che risplende nella calcolabile armonia delle parti. Non è freddo calcolo l’armonia geometrica a cui egli pensa. Bellezza è in primo luogo seduzione: è seduzione dei corpi, come quella che colpisce Socrate travolto dall’avvenenza del giovane Carmide, ed è seduzione della mente, come la “lusinga” di cui sono maestri i sofisti, che al loro pubblico forniscono facili ed allettanti persuasioni retoriche che tutti seducono allo stesso modo, omologandoli, proprio come un cuoco che offre dolciumi ad una platea di bambini. Questo tipo di seduzione, la seduzione di certa poesia, è per Socrate senz’altro da bandire: di falsa bellezza si tratta, come lascia intendere la sua celebre condanna delle arti imitative che valse per secoli a Platone l’epiteto di “nemico dell’arte”.
Vi è tuttavia anche un’altra poesia, magistrale esempio di creazione di bellezza, per la quale Socrate riserva ben altre parole. Decisivo è qui il ruolo dell’ispirazione, dell’entusiasmo, della possessione, della theia mania. “Colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, – dice nello Ione – pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimarrà incompleto, e la poesia di chi rimane in senno verrà oscurata da coloro che sono posseduti da mania”. L’ispirazione divina conferisce bellezza e forza alla poesia, così come all’arte del rapsodo e attore che, “dall’alto del suo palco”, recita i versi dei poeti. Discutendo con il rapsodo Ione intorno alla ragione per la quale egli si mostra in grado di recitare con grande maestria e forza di persuasione solamente i versi di Omero, afferma Socrate che “tu non sai parlare di Omero per arte e per scienza, perché, se lo sapessi fare per arte, sapresti parlare anche di tutti gli altri poeti”. Come il poeta può comporre solo se si trova in quello stato di furore che lo rende “interprete degli dei”, e non autore egli stesso dei propri poemi, così Ione, quando si trova a commentare un verso di Omero, o a recitarlo nei teatri, agisce in stato di mania, fuori di senno. Un’enigmatica affinità lega Ione ai versi di Omero, tale da consentirgli di commentarli e recitarli in modo efficace e persuasivo, mentre altrettanto non gli riesce con i versi di altri poeti: è infatti la sorte divina a governare le sue parole.










Ciò differenzia l’arte di Ione da tutte le scienze che hanno invece conoscenza specifica del proprio oggetto. L’arte e la poesia divinamente ispirate, dunque, per quanto belle non sembrano avere a che fare con la conoscenza degli esperti nelle varie scienze, che a tutti e in ogni situazione sanno parlare del proprio oggetto di studi. Dunque sembra difficile che una simile bellezza senza scienza possa aiutare a formare uomini sapienti e a costruire una vera polis. Ma forse le cose non stanno proprio così: in primo luogo dobbiamo ricordare che la conoscenza scientifica, oggettiva, quella che si rivolge indistintamente a tutti e non è influenzata da ispirazioni divine di alcun tipo, è definita da Socrate nel Gorgia come “irrazionale” perché non si occupa dell’unicità delle persone a cui si rivolge. In secondo luogo, nel Teagete Socrate sostiene che anche l’arte del dialogare, proprio come la poesia ispirata, è governata dall’imprevedibile intervento del demone che indica chi non può trarre giovamento dalle sue parole. Come Ione è legato da un vincolo inspiegabile ad Omero, così anche la divina sofia è caratterizzata da un’enigmatica affinità “senza perché” che unisce i dialoganti e rende efficaci, “vere” in quanto indirizzate al fine del dialogo, le parole di Socrate.

Alla luce di queste considerazioni, dunque, possiamo ipotizzare che l’arte divinamente ispirata e la sua bellezza non siano così inutili e lontane da quella conoscenza di sé che è per Socrate l’unica cosa che conta davvero. Il suo esser posseduta dal divino la distanzia dalle scienze oggettive ma la rende anzi affine alla conoscenza di sé, cioè all’unica vera razionalità. Non per tutti è il parlare di Socrate, non di tutto parla Ione, ma solo dei versi di Omero: il suo non parlar di tutto, che lo differenzia dagli scienziati, è l’immagine, sul piano monologico in cui si sviluppa il parlare di Ione, della demonicità del dialogo. La bella recitazione dell’attore divinamente ispirato che colpisce il proprio pubblico, è un monologo che rinvia oltre se stesso, oltre la propria strutturale monologicità verso il piano divino del dialogo; in questo rinvio, che si esprime proprio nell’invasamento o ispirazione, sta la sua divinità, l’annuncio del dio di cui il poeta e l’attore si fanno “interpreti”.
Il bello, la percezione e la fruizione che di esso offre la parola del poeta posseduto dal dio, così come il gesto dell’attore in quanto “interpretazione”, icona mobile di un’invisibile origine divina che si rivela autentica autrice di quel gesto, sono manifestazioni di to theion: esse sono belle e divine in quanto sospingono alla conoscenza e al governo di sé, dunque anche al governo della polis. Il bello e l’ispirazione divina hanno dunque natura politica. La visione del bello squarcia le maglie che irretiscono lo sguardo incantato dalle imitazioni camuffate da verità: l’esperienza del bello non è solo un momento piacevole e fugace, una sospensione delle incombenze pratiche della vita, una pausa, una fuga, un tempo libero e parziale. Il bello è tale solo se la sua fruizione, il goderne dunque, contribuisce al riscatto dell’intera vita di chi in esso si imbatte, anche dei suoi gesti quotidiani indirizzati all’utile. Quell’utile che i più ritengono separato dal bello: altra menzogna da lasciarsi alle spalle, grazie all’azione della poesia divina che è appunto, ad un tempo, “dolce e utile”, edeia kai ophelime.

Fonte: http://www.pratichefilosofiche.com/

lunedì 7 giugno 2010

Seneca - Epistole a Lucilio, 1

Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire" (Epistole a Lucilio, 1).

martedì 13 aprile 2010

La verità ....secondo Pietro Ubaldi


Botticelli


In questi giorni ho ricevuto in dono alcuni libri scritti da Pietro Ubaldi, nato a Foligno il 18 agosto 1886 e definito da alcuni il ''profeta del terzo millennio'' . Candidato al premio Nobel, il sistema dell'universo da lui descritto fu definito da Alberto Einstein '' dolce e leggero '' e il volume '' La grande sintesi '' fu reputato da Enrico Fermi '' un quadro di di filosofia scientifica ''


Di seguito riporto un brano tratto dalla sua opera.

La verità svelata dal tempo di Lorenzo Bernini



... la verità è un'astrazione e ciò che esiste di fatto sono le persone che vi credono; e vediamo che una verità esiste in terra in quanto e fino a quando vi sono quelle persone che vi credono.

E' un fatto che nel nostro mondo non esiste una verità universale. La vediamo invece polverizzata in infinite verità particolari, quelle di ciascuna di queste persone.
Esse però rappresentano il punto di partenza e il materiale primo di una ricostruzione della verità universale .....[ .... ] .... alla concezione di una verità sempre più vasta si arriva attraverso l'unificazione delle relative verità particolari. Certo la verità universale assoluta esiste. Ma essa è lontana meta dell'evoluzione e oggi per l'uomo esiste solo nella misura data dall'approssimazione in proporzione allo sviluppo della sua forma mentale.
Quello che di fatto oggi troviamo in terra sono dunque degli aggruppamenti di individui di forma mentale affine, i quali per questo sostengono una comune verità a loro relativa e valida per il loro gruppo.

martedì 9 marzo 2010

In cammino

Max Lieberman


Paolo Rossi
Memoria e reminiscenza
da Rai Educational

venerdì 29 maggio 2009

Socrate ...Io non so e non penso nemmeno di sapere.

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Bene, una volta Cherofonte andò a Delfi e così si rivolse all’oracolo […], chiese all’oracolo se c’era qualcuno più sapiente di me. [ di Socrate] 
Così parlò la Pizia: ‘’ Nessuno è più sapiente di te’’….
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( Socrate si difende… dichiarando che nonostante i suoi accusatori abbiano parlato in modo pomposo e appariscente, non è detto che dicano la verità….utilizzando la propria ironia e l’arte della maieutica …. racconta di Cherofonte …. scopre il significato dell’oracolo: lui era sapiente perché si era reso conto di non sapere.)


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Vi ho raccontato la storia dell’oracolo, aggiunge Socrate, perché voglio che sappiate da dove è nata la calunnia. Vedendo il responso dell’oracolo pensai: ’che cosa dice mai il Dio? Che cosa si nasconde nelle sue parole? Perché io non sono cosciente di essere sapiente? Che cosa vuol dire l’oracolo definendomi sapientissimo? Tra l’altro non può mentire perché non è cosa lecita ad un Dio ‘’
Poi, e con fatica, cercai di capire che cosa avesse voluto dire . (…)
Andai così da uno che si dava arie di sapiente e dentro di me pensavo ‘’ Ora smentirò il vaticino mostrando all’oracolo che costui è più sapiente di me’  [ ... ] quando me ne fui andato, ragionando tra me stesso, pensai: ‘’Io sono più sapiente di quest’uomo in quanto nessuno di noi due sa niente di bello e di buono, ma lui crede di sapere e non sa mentre io non so e non penso nemmeno di sapere. Per questo piccolo dettaglio io sono più saggio di lui. Proprio perché non credo di sapere quello che non so’’


Poi andai dai politici (…. .) Dopo i politici andai dai poeti senza distinzioni di generi, sempre per vedere se fossero meno ignoranti di me. Lessi le loro opere, quelle che mi sembravano più importanti e ambiziose, per imparare da loro e poi chiesi che volessero dire i loro versi.
Cittadini, provo vergogna a dirvi la verità, eppure va detta . Chiunque sa molto di più e meglio sui temi che i poeti affrontano nelle loro opere. Conclusi che i poeti non scrivono poesie per sapienza ma per un loro talento naturale e per un dono divino, come fanno i profeti e i chiaroveggenti, i quali dicono molte cose e belle eppure non sanno niente di quello che dicono (…. ) inoltre mi accorsi che i poeti, in quanto poeti, pensavano di essere anche fuori dal loro campo uomini di grande sapienza senza che lo fossero. Così ho lasciato perdere. Per i poeti valgono le stesse conclusioni che valgono per i politici e, cioè, valgo più io.

sabato 16 maggio 2009

EPICURO - Lettera sulla felicità

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Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
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Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza.
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