mercoledì 30 aprile 2014

Perez
E' sera, anzi è notte.
La pioggia ha smesso di battere i vetri della finestra: sembra ottobre !
Forse è la pioggia che porta la tristezza, la voglia di riempire la stanza, di non restare solo... I miei dormono.
Forse è vero che i poeti attendono la notte per scrivere sciocchezze.
Attendono l'amore che c'è, che non c'è e lascia soli.
Ho bisogno di riposo, di liberare la mente per scrivere, raccontare, vivere sensazioni, emozioni nuove e non mi basta leggere un buon libro o la biografia dei grandi e il racconto, quello che agita la notte, resta nella penna e sfiorisce insieme ai giorni che passano lenti, irraggiungibili, inconcludenti.
Bisognerebbe vivere per ricominciare, tutti i giorni, e inventare il presente che vorresti ma ... domani non è il giorno che vorrei.

Per scrivere occorre una storia e i libri che hai letto non aiutano.
Sono le storie degli altri, quelle, belle, avvincenti ma tu sei diverso, la tua vita è stata diversa.
Ho combattuto la buona battaglia, mi dico, e spesso ho perso .
Ma era veramente la buona battaglia o io, bambino che pensa da grande, ho confuso il bene con il male?

Ognuno ha i suoi racconti.

Tolstoj ascoltava ''La sonata a Kreutzer'' di Beethoven e stava bene, io, più semplicemente, cerco il silenzio, questo silenzio che avvolge e ristora. Non è rigido, non è immutabile, anzi....
Stammi bene, gsn

 
(dalla mia residenza, Aprile 2013)

Czeslaw Miłosz "La fodera del mondo",





Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
 L'altra parte, dietro l'uccello, la montagna, il tramonto.
 Il vero significato che vorrà essere letto.
 Ciò ch'era inconciliabile, si concilierà.

 E sarà compreso ciò che era incomprensibile.
Ma se non c'è una fodera del mondo?

Se il tordo sul ramo non è affatto un segno
ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
si susseguono senza badare a un senso
e non c'è nulla sulla terra, oltre questa terra?

Se così fosse, resterebbe ancora la parola
suscitata una volta da effimere labbra,
che corre e corre, messaggero instancabile,
nei campi interstellari, nei vortici galattici
e protesta, chiama, grida.

Czeslaw Miłosz

"La fodera del mondo",


Czeslaw Milosz nacque nel 1911 a Szetejnie, in Lituania. Trascorse l’infanzia tra la Lituania stessa (sempre nostalgicamente ricordata, coi suoi boschi e le sue leggende) e la Russia, ove il padre,ingegnere,  lavorò durante la prima guerra mondiale. Studiò all’università di Vilnus e qui, frequentando giovanili circoli letterari, scrisse i primi versi. Durante gli anni Trenta divenne, in patria, un autore già noto e stimato, rappresentante d’una poetica, definita“catastrofica”, orientata a denunciare le sofferenze e le ingiustizie del mondo (“Cos’è la poesia che non salva/i popolie le persone?”). Trasferitosi in Polonia, un Paese da secoli legato culturalmente e politicamente alla Lituania, partecipò alla Resistenza contro l’occupazione nazista e nel dopoguerra, pur non iscrivendosi al Partito Comunista, salutò con gioia e speranza il trasformarsi della Polonia, ormai sua seconda patria, in Repubblica Popolare. Ne divenne anche rappresentante diplomatico, in America eppoi a Parigi. Qui, ormai deluso dal regime di tipo sovietico che si era imposto in Polonia, chiese nel 1951 l’asilo politico. Si trasferì poi, anni dopo, negli USA, insegnando all’Università di Berkeley. Nel1980 gli fu assegnato il Premio Nobel. Tornato in Polonia, dopo il crollo del muro di Berlino e dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est, vi è morto nel 2004.


sabato 26 aprile 2014

Papa Giovanni Paolo II. Omelia della messa di inaugurazione del pontificato, 22 ottobre 1978.

 
 
 
 
« Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l'uomo. Solo lui lo sa! »
 


Vittorio Sereni - Altro posto di lavoro


alfred_sisley_
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Non vorrai dirmi che tu
sei tu o che io sono io.
Siamo passati come passano gli anni.
Altro di noi non c'è qui che lo specimen
anzi l'imago perpetuantesi
a vuoto -
e acque ci contemplano e vetrate,
ci pensano al futuro: capofitti nel poi,
postille sempre più fioche
multipli vaghi di noi quali saremo stati.


Vittorio Sereni
Altro posto di lavoro
 
 


alfred_sisley_
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Norberto Proietti





Norberto Proietti (Spello, 18 settembre 1927 – Spello, 9 agosto 2009) è stato un pittore e scultore italiano.
.
È stato uno dei più famosi pittori naif, noto per i suoi frati in miniatura sullo sfondo di paesaggi medievali.[1] Nell'ambito della scultura, l'artista è noto per le opere realizzate modellando il legno di ulivo e per il Pellegrino di pace, posto davanti alla Basilica superiore di Assisi, dedicato a San Francesco. (Wikipedia)
.
Vittorio Sgarbi lo ha recensito: 
Norberto Proietti nasce a Spello nel 1927. Non poteva, viste le sue propensioni successive, nascervi per caso: Spello è uno dei borghi medievali più integri e poetici dell'Umbria, immerso in una natura lussureggiante e serena, arricchita dalle testimonianze artistiche di Pinturicchio e di Perugino, oltre che di un importante "minore" come Cola Petruccioli o di un grande moderno come Prampolini. La scelta artistica di Norberto non è comunque immediata. Le difficoltà economiche della famiglia lo costringono a lavorare precocemente come sarto presso la bottega di uno zio, seguendolo nei suoi trasferimenti, tra gli anni Quaranta e i primissimi anni Cinquanta, da Roma a Bergamo. Non mancano di tanto in tanto le prime manifestazioni di spirito creativo. Leggo che il giovane Proietti, come nelle più classiche leggende sulla formazione degli artisti, esibiva il proprio talento abbozzando qualche figura con la punta della forbici o completando un'opera iniziata dal fratello Guglielmo. Norberto, tornato nel 1951 a Spello dove ha avviato un'attività sartoriale autonoma, non sa ancora che sarà presto l'arte ad occupare interamente la sua esistenza. La svolta avviene d'improvviso. È una rivelazione silenziosa, un "uragano" e non un'apparizione miracolosa, eppure allo stesso modo dirompente nelle sue drastiche conseguenze: «.. .quella che può apparire una dilettantesca distrazione a poco a poco comincia a diventare per Norberto un'esigenza vitale, anche se inconscia. E un giorno, servendosi dello stucco lasciato casualmente nella sua abitazione da alcuni imbianchini, prepara il fondo di una tavoletta, lo incide e lo colora, iniziando per così dire a delineare una prima forma di tecnica espressiva del tutto personale. Siamo nel 1955...» (L.Luisi). La scoperta del proprio destino, come in ogni favola che si rispetti, conduce presto al successo.
 
 
 
 
Dedicatosi esclusivamente alla pittura dal 1961, dopo alcune sapienti prove nella scultura, Norberto espone nel 1962 in Lussemburgo e nel 1965-1966 in America, a Memphis, offrendosi subito al mercato internazionale. Questa dimensione dell'artista viene sancita definitivamente dalla sua presenza nei Festival dei Due Mondi di Spoleto, quasi continua negli anni compresi tra il 1967 e il 1974. È in questa fase che la produzione di Norberto riesce a sovrapporsi alle tendenze dell'arte naïf, divenuta in breve tempo fenomeno di grande fortuna popolare e commerciale. Proprio il massimo promotore del naïf italiano, Cesare Zavattini, diventa un convinto estimatore di Norberto e gli fa attribuire il Premio Suzzara (1971), l'Oscar dell'arte "ingenua" nazionale. Da allora la storia bella di Norberto ha conosciuto una continua coerente maturazione.Chiunque abbia visto anche un solo quadro di Norberto, specie se realizzato negli anni Settanta e Ottanta, non avrà faticato affatto a identificare totalmente il mondo poetico dell'artista con quello della favola. Il Medioevo fa da sfondo fisico, temporale e spirituale ai dipinti dell'artista. Non è un Medioevo propriamente storico o filologico, ma è una categoria dell'anima alla quale Norberto attribuisce il merito di aver conseguito la perfetta equazione tra uomo, Dio e natura. Ci sono quadri, tra i più riusciti del periodo naïf, nei quali questa coscienza viene espressa in composizioni lucidissime con la parte superiore occupata dal solito borgo turrito e la parte inferiore dai campi lavorati. Due metà equivalenti anche nelle dimensioni, due emisferi, quello della città e della campagna, allo stesso tempo uguali e contrari. Non cercate nelle immagini di Norberto altro Dio che non sia nelle cose, nelle persone o negli eventi illustrati dal pennello. La natura è immanenza assoluta e genera spontaneamente nell'uomo il sentimento della religione, l'ammirata e rasserenante contemplazione del creato, la laude francescana in gloria della perfezione cosmica. Nessuna incertezza, il Medioevo metafisico di Norberto è il migliore dei mondi possibili. Niente potrebbe intaccare l'aureo equilibrio che contrappone solo apparentemente Spello alla vicina Assisi e il bosco alla campagna, misurato da soavi alternanze di rette e di curve come in un paesaggio gotico, illuminato da colori cristallini come in un diorama di vetro. E' un' Umbria sublimata in un magico eden quella di Norberto, al cui confronto quella vera, pur bellissima, sembra una copia naïve. Quanti monaci, piccoli e attivissimi come formiche nei dipinti di Norberto. Credo che la loro presenza venga dettata da ragioni più serie, ragioni di intima coerenza con il mondo poetico dell'artista. Se il Medioevo metafisico dell'Umbria sublimata è il paradiso in terra, i monaci esprimono la condizione ideale attraverso la quale l'uomo può mettersi in relazione con esso per godere correttamente dell'armonia mundi. Ora et labora, pregare e lavorare, onorare la natura con la devozione religiosa e l'operosità manuale. Anche Norberto deve sentirsi a suo modo un monaco, impegnato a glorificare con il talento artistico e con la fatica del mestiere ciò che ama così profondamente. E Francesco d'Assisi è il suo più alto modello morale e intellettuale: la vita va spesa lodando la meraviglia del creato e le gioie della comunione di Dio. Se si è capaci di tanto, se si riesce a vedere la bellezza delle cose nella loro "povertà", nella loro essenza divina che non ha bisogno di ornamento alcuno, allora si può intendere il segreto della natura, si può parlare con gli uccelli e rabbonire il lupo cattivo. È questa la vera, unica santità a cui aspira il pacifico mondo di Norberto che non conosce dolore e peccato. Norberto non ama essere considerato un naïf. Coloro che si sono occupati di lui sembrano concordare, salvo poi trattarlo nella pratica sempre come un naïf . Nessuno si nasconde che la produzione artistica più conosciuta di Norberto sia nella scia del "boom" commerciale del gusto naïf. 
 
 
Nessuno potrebbe negare che i caratteri stilistici di questa produzione rientrino benissimo nei binari generici del naïf nazionale e internazionale.. La riluttanza di Norberto a indossare la camicia troppo stretta del naïf è comunque comprensibile e del tutto fondata. Lo dicono non le sue convinzioni, ma le opere che hanno preceduto e seguito quelle più prevedibilmente definibili naïf. La pittura di Norberto ha una matrice intrecciata saldamente, anche quando inconsciamente, con la più significativa tradizione primitivistica italiana da Alberto Magri a Massimo Campigli. Basta osservare le sue prime opere, inspiegabilmente sottovalutate. L'Autoritratto e Nanda (1959) respirano l'aria di Strapaese, mostrando affinità con l'opera di Rosai. Poco importa che queste ascendenze derivino da precise conoscenze: sono gli intenti e gli esiti finali a stabilire queste involontarie e neanche troppo singolari parentele. Colpisce particolarmente, in questi dipinti d'esordio, la straordinaria densità della materia pittorica. È una densità tutta "primitiva" che niente ha a che fare con le superfici linde e glassate del naïf più convenzionale, vicina nella sua composizione e nel suo effetto a quella dell'intonaco grezzo; una crosta scabra che scompone le luci e le ombre in delicate nuances pulviscolari, offrendosi al tatto non meno che all'occhio. Paradossalmente il Norberto ufficialmente naïf è molto meno "ingenuo" e istintivo del Norberto primitivista. L'artista acquisisce un'inedita sapienza compositiva, imparando a costruire articolati scenari spaziali ai quali spetta la funzione di contenere e sviluppare la narrazione aneddotica. Si è voluto mettere in relazione questa nuova maturità di Norberto con la conoscenza approfondita dei grandi cicli pittorici - il Giotto di Assisi, o chi per lui, in primis, ma anche il Simone Martini delle Storie agostiniane - dell'Umbria e della Toscana trecentesca. C'è certamente del vero in queste valutazioni, ma non si trascuri la costante natura novecentesca della maniera di Norberto, ancora una volta riconducibile, sebbene per altri e più remoti versanti, alla fucina primitivistica. Osserviamo le griglie cubiste evocate da certi dipinti di gusto naïf composti su impianti geometrici particolarmente rigorosi. In questo spirito, com'è noto, si è espresso anche il Sironi dei primissimi anni Venti. Bene, guardate un borgo medievale di Norberto come quelli de I campioni o di Struttura, guardatene la paratassi compositiva rigidamente geometrica, empirica ma precisa come una scacchiera, e ditemi se non sono la controparte popolareggiante delle celebri periferie urbane dipinte da Sironi tra il 1920 e il 1922. Qui la magia domestica della vita a dimensione d'uomo, là la desolante atarassia della vita a dimensione di macchina, qui il presente che si ritrova nel passato, là il presente che si perde nel futuro; è però equivalente, fatte le debite distinzioni di peso, la tendenza all'astrazione del dato reale in una figurazione ideale fatta di volumi piatti, di finestre buie e profonde come buchi, di piani netti di luce e di ombra. E' davanti a confronti del genere che la classificazione di naïf assegnata a Norberto mostra tutta la sua debolezza critica, non fornendo alcun elemento chiarificatore sulla ricerca formale intrapresa dall'autore. Il Norberto degli anni Settanta-Novanta ordina, geometrizza, semplifica, codifica in un sermo linguistico d'immediata efficacia comunicativa quegli istinti, quelle sommarietà figurative, quelle virulenze materiche che il primo Norberto quello davvero naïf, aveva lasciato liberi di esprimersi. C'è stato, insomma, un Norberto del primitivismo espressionista al quale ha fatto seguito un Norberto "primitivo-classicista"; ma sempre di primitivismo si tratta, e non è detto che la scorza impulsiva dell'artista di Spello, anche se ormai sottomessa a una forte disciplina della forma, non torni a prevalere.
(4 foto)
 
 

Jacques Prevert - Canzone

Foto: Canzone

Che giorno siamo noi
Noi siamo tutti i giorni
Amica mia
Noi siamo tutta la vita
Amore mio
Noi ci amiamo e noi viviamo
Noi viviamo e noi ci amiamo
E noi non sappiamo che cosa è la vita
E noi non sappiamo che cosa è il giorno
E noi non sappiamo che cosa è l'amore

Jacques Prevert

 
Canzone

Che giorno siamo noi
Noi siamo tutti i giorni
Amica mia
Noi siamo tutta la vita

Amore mio
Noi ci amiamo e noi viviamo
Noi viviamo e noi ci amiamo
E noi non sappiamo che cosa è la vita
E noi non sappiamo che cosa è il giorno
E noi non sappiamo che cosa è l'amore

 

domenica 20 aprile 2014

La tomba vuota

Il mistero pasquale secondo il Beato Angelico (Museo San Marco Firenze)




 SEQUENZA

Alla vittima pasquale, s'innalzi oggi il sacrificio di lode.
L'Agnello ha redento il suo gregge,l'Innocente ha riconciliato
noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.

«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto: precede i suoi in Galilea».

Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi.


 il Beato Angelico (Museo San Marco Firenze) . La tomba vuota
 

venerdì 18 aprile 2014

Venerdì Santo 2014

 
 






Oggi la comunità cristiana non celebra l’Eucaristia perché il clima di festa non si addice all’evento che riempie il suo ricordo e motiva il suo digiuno (cf Mc 2,19-20): la morte del suo Signore e Sposo. L’azione liturgica è dominata dalla croce; manifestazione luminosa dell’amore divino spinto alla follia, la croce lascia spazio solo al silenzio e alla contemplazione.

mercoledì 9 aprile 2014

Reinhold Niebuhr


Vincent Van Gogh


  
Che Dio mi conceda la serenità
di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare quelle che posso cambiare,
e la saggezza di distinguere tra le due.
Vivere giorno per giorno,
godersi un momento per volta,
accettare le avversità come una via verso la pace,
prendere, come Lui fece,
questo mondo corrotto
per quello che è,non per quello che vorrei,
confidare che Lui sistemerà tutto
se mi abbandonerò alla Sua volontà.
Che io possa essere
ragionevolmente felice in questa vita
e sommamente felice accanto a Lui
nella prossima, per sempre.

Reinhold Niebuhr

lunedì 7 aprile 2014

Quinto Orazio Flacco - Odi, II, 16, 25-40


Il cuore allegro, adesso, odia il pensiero
del poi. Sciogli la sofferenza
in un sorriso quieto, perché mai ci è concessa
una beatitudine durevole.

Una morte repentina colpì il luminoso Achille
mentre una vecchiaia eterna sembrava consumare Titone.
Forse in un attimo
avrò quello che a te pare negato...

A me le Parche, che mai ingannano,
hanno dato un po' di campagna
e un sospiro dolce di poesia greca.
E un assoluto distacco dalla pazza folla.


Un'antica descrizione consente di attribuire la misteriosa tela, a lungo ritenuta opera del Sodoma, al pittore senese Marco Bigio.
L'opera raffigura le tre Parche intente a filare il destino degli uomini, accompagnate da una folta schiera di personaggi allegorici. Sulla destra, Cloto, che presiede alla nascita, svolge il filo dal fuso; a sinistra Lachesi tesse il filo diventato rosso a significare l'amore fisico dell'età matura, al quale allude anche la giovane nera con quattro mammelle, simbolo di fecondità.
Atropo, la Parca al centro, recide il filo della vita decretando il momento della morte. Sullo sfondo si scorgono l'albero di Adamo ed Eva, un altro albero secco con un rapace appollaiato, e uno scheletro con la falce, simbolo di vanitas. Il vecchio con la clessidra, allegoria del Tempo, tiene nella piega della veste delle medaglie con nomi di personaggi storici, come quelle a terra, su cui si accapigliano due putti.
I tre diversi metalli - oro, argento e bronzo - alludono al diverso valore dei personaggi: gli uccelli che popolano la scena ripescheranno dal fiume Lete, rappresentato sullo sfondo, solo le monete con i nomi degli uomini meritevoli di fama imperitura, e non quelle con i nomi di chi cadrà nell'oblio. 
 
 Un'antica descrizione consente di attribuire la  tela, a lungo ritenuta opera del Sodoma, al pittore senese Marco Bigio. L'opera raffigura le tre Parche intente a filare il destino degli uomini, accompagnate da una folta schiera di personaggi allegorici. Sulla destra, Cloto, che presiede alla nascita, svolge il filo dal fuso; a sinistra Lachesi tesse il filo diventato rosso a significare l'amore fisico dell'età matura, al quale allude anche la giovane nera con quattro mammelle, simbolo di fecondità. Atropo, la Parca al centro, recide il filo della vita decretando il momento della morte. Sullo sfondo si scorgono l'albero di Adamo ed Eva, un altro albero secco con un rapace appollaiato, e uno scheletro con la falce, simbolo di vanitas. Il vecchio con la clessidra, allegoria del Tempo, tiene nella piega della veste delle medaglie con nomi di personaggi storici, come quelle a terra, su cui si accapigliano due putti. I tre diversi metalli - oro, argento e bronzo - alludono al diverso valore dei personaggi: gli uccelli che popolano la scena ripescheranno dal fiume Lete, rappresentato sullo sfondo, solo le monete con i nomi degli uomini meritevoli di fama imperitura, e non quelle con i nomi di chi cadrà nell'oblio.

Lucio Anneo Seneca - Lettere a Lucilio, 1,2


Geoge Clausen
Geoge Clausen


Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione indica un'infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi.

 Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e libri di ogni genere non sia un po' segno di incostanza e di volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico. Lo stesso capita inevitabilmente a chi non si dedica a fondo a nessun autore, ma sfoglia tutto in fretta e alla svelta.

Non giova né si assimila il cibo vomitato subito dopo il pasto. Niente ostacola tanto la guarigione quanto il frequente cambiare medicina; non si cicatrizza una ferita curata in modo sempre diverso. Una pianta, se viene spostata spesso, non si irrobustisce; niente è così efficace da poter giovare in poco tempo. Troppi libri sono dispersivi: dal momento che non puoi leggere tutti i volumi che potresti avere, basta possederne quanti puoi leggerne.

"Ma," ribatti, "a me piace sfogliare un po' questo libro, un po' quest'altro." È proprio di uno stomaco viziato assaggiare molte cose: la varietà di cibi non nutre, intossica. Leggi sempre, perciò autori di valore riconosciuto e se di tanto in tanto ti viene in mente di passare ad altri, ritorna poi ai primi.
Procurati ogni giorno un aiuto contro la povertà, contro la morte e, anche, contro le altre calamità; e quando avrai fatto passare tante cose, estrai un concetto da assimilare in quel giorno.

Anch'io mi regolo così; dal molto che leggo ricavo qualche cosa. Il frutto di oggi l'ho tratto da Epicuro (è mia abitudine penetrare nell'accampamento nemico, ma non da disertore, se mai da esploratore); dichiara Epicuro: "È nobile cosa la povertà accettata con gioia."

Ma se è accettata con gioia, non è povertà. Povero non è chi ha poco, ma chi vuole di più. Cosa importa quanto c'è nel forziere o nei granaî, quanti sono i capi di bestiame o i redditi da usura, se ha gli occhi sulla roba altrui e fa il conto non di quanto ha, ma di quanto vorrebbe procurarsi? Mi domandi quale sia la giusta misura della ricchezza? Primo avere il necessario, secondo quanto basta. Stammi bene.




Geoge Clausen
Geoge Clausen

Rainer Maria Rilke - Terra che ti fai buia, paziente sopporti le mura....

 



Terra che ti fai buia, paziente sopporti le mura.
Forse permetti alle città di vivere ancora un’ora,
ne concedi due alle chiese e ai chiostri solitari,
ne lasci cinque al travaglio dei credenti
e per sette contempli il contadino al lavoro

prima di tornare foresta, acqua, rigoglio selvatico
nell’istante dell’inafferrabile paura
quando chiederai a ogni cosa
la tua immagine incompiuta.

Dammi un po’ di tempo: voglio amare le cose in modo
nuovo
e farle degne di te e grandi.
Voglio solo sette giorni, sette
su cui nessuno abbia mai scritto,
bq. sette giorni di solitudine.

Chi riceverà il libro che li raccoglie
rimarrà chino sulle sue pagine.
Oppure sarà nelle tue mani
e lo scriverai tu stesso.

Rainer Maria Rilke
Terra che ti fai buia, paziente sopporti le mura....

Rainer Maria Rilke - Lettere a un giovane poeta




Giorgio De Chirico, “Il poeta e la sua Musa”
Giorgio De Chirico, “Il poeta e la sua Musa”

Parigi, 17 febbraio 1903

Egregio signore,
la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un’operad’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire comed’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi
sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero lacui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.

Ciò premesso, mi sia solo consentito dirle che i suoi versi, pur non avendo una natura loro propria, hanno però sommessi evelati germi di una personalità. Con più chiarezza lo avverto nell’ultima poesia, La mia anima. Qui, qualcosa di proprio vuole farsimetodo e parola. E nella bella poesia A Leopardi affiora forse una certa affinità con quel grande solitario. Eppure quei poemi sono ancora privi di una loro autonoma fisionomia, anche l’ultimo e quello a Leopardi. La
sua gentile lettera che li accompagnava; non manca di spiegarmi varie pecche che ho percepito nel leggere i suoi versi, senza però potervi dare un nome.

Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo dirinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. 

Giorgio de Chirico - il poeta e il filosofo
Giorgio de Chirico - il poeta e il filosofo

Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo chele intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel puntopiù profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una
profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca lasua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questaurgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo
uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni:sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. 

Giorgio de Chirico - il poeta e il pittore
Giorgio de Chirico - il poeta e il pittore

Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque;descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, peresprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni egli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né visono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le, rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi.

Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso,una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deveessere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.

Giorgio de Chirico - il trovatore
Giorgio de Chirico - il trovatore

Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo,sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso).

Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo,volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.

Mi ha rallegrato trovare nel suo scritto il nome del professor Horacek; serbo per quell’amabile studioso grande stima, e una gratitudine che non teme gli anni. Voglia, la prego, dirgli di questo mio sentimento; è molto buono a ricordarsi ancora di me, e lo so apprezzare.

Le restituisco inoltre i versi che gentilmente mi ha voluto confidare. E la ringrazio ancora per la grandezza e la cordialità della sua fiducia, di cui con questa risposta sincera, e data in buona fede, ho cercato di rendermi un po’ più degno di quanto io, un estraneo, non sia.

Suo devotissimo
Rainer Maria Rilke
 Lettere a un giovane poeta

(Mondadori 1994)